Questa mattina il predicatore della Casa pontificia, il cardinale Raniero Cantalamessa, ha tenuto nell’aula Paolo VI la quarta predica di Quaresima. Il tema delle meditazioni è “Prendete, mangiate: questo è il mio corpo” – Una catechesi mistagogica sull’Eucaristia. Questa volta il porporato ha parlato dell’Eucaristia come presenza reale di Cristo nella Chiesa. Ecco le sue riflessioni:
Dopo le nostre catechesi mistagogiche sulle tre parti della Messa –la liturgia della parola, la consacrazione e la comunione – meditiamo oggi sull’Eucaristia come presenza reale di Cristo nella Chiesa.
Come affrontare un mistero così alto e così inaccessibile? Ci vengono subito alla mente le infinite teorie e discussioni esistenti intorno a esso, le divergenze tra cattolici e protestanti, tra latini e ortodossi, che riempivano i libri sui quali abbiamo studiato teologia noi che abbiamo una certa età, e siamo tentati di pensare che è impossibile dire ancora qualcosa di questo mistero che possa edificare la nostra fede e riscaldare il nostro cuore, senza scivolare inevitabilmente nella polemica interconfessionale.
Supremo pegno d’amore
Ma è proprio questa l’opera meravigliosa che lo Spirito Santo sta compiendo ai nostri giorni tra tutti i cristiani. Egli ci spinge a riconoscere quanta parte avevano, nelle nostre dispute eucaristiche, la presunzione umana di poter racchiudere il mistero in una teoria o, addirittura, in una parola, come pure la volontà di prevalere sull’avversario. Ci spinge a pentirci di aver ridotto il supremo pegno d’amore e di unità lasciatoci da nostro Signore ad oggetto privilegiato dei nostri alterchi.
La via per incamminarci su questa strada dell’ecumenismo eucaristico è la via del riconoscimento reciproco, la via cristiana dell’agape, cioè della condivisione. Non si tratta di passar sopra alle divergenze reali, o di venir meno in qualcosa all’autentica dottrina cattolica. Si tratta piuttosto di mettere insieme gli aspetti positivi e i valori autentici che ci sono in ognuna delle tre grandi tradizioni cristiane, in modo da costituire una “massa” di verità comune che cominci ad attirarci verso l’unità.
È incredibile come alcune posizioni cattoliche, ortodosse e protestanti, intorno alla presenza reale, risultino divergenti tra di loro e distruttive, qualora vengano contrapposte e viste in alternativa tra di loro, mentre appaiono, invece, meravigliosamente convergenti, se tenute insieme in equilibrio. È la sintesi che dobbiamo cominciare a fare; dobbiamo passare, come al setaccio, le grandi tradizioni cristiane, per ritenere di ognuna, come ci esorta l’Apostolo, “ciò che è buono” (cf 1 Ts 5, 21).
La tradizione latina: una presenza reale, ma nascosta
Andiamo, dunque, a visitare, con questo spirito, le tre principali tradizioni eucaristiche – latina, ortodossa e protestante – per edificarci delle ricchezze di ognuna e riunire tutte nel tesoro comune della Chiesa. L’idea che, alla fine, avremo del mistero della presenza reale risulterà più ricca e più viva.
Nella visione della teologia e della liturgia latina, il centro indiscusso dell’azione eucaristica, dal quale scaturisce la presenza reale di Cristo, è il momento della consacrazione. In esso, Gesù agisce e parla in prima persona. Sant’Ambrogio, per esempio, scrive: Questo pane è pane prima delle parole sacramentali; ma, intervenendo la consacrazione, il pane diventa carne di Cristo…
Da quali parole è operata la consacrazione e di chi sono tali parole? Del Signore Gesù! Tutte le cose che si dicono prima di quel momento sono dette dal sacerdote che loda Dio, prega per il popolo, per i re e per gli altri; ma quando si arriva al momento di realizzare il venerabile sacramento, il sacerdote non usa più parole sue, ma di Cristo. È dunque la parola che opera (conficit) il sacramento… Vedi quanto è efficace (operatorius) il parlare di Cristo? Prima della consacrazione non c’era il corpo di Cristo, ma dopo la consacrazione, io ti dico che c’è ormai il corpo di Cristo. Egli ha detto ed è stato fatto, ha comandato ed è stato creato (cf Sal 33, 9).
Possiamo parlare, nella visione latina, di un realismo cristologico. “Cristologico”, perché tutta l’attenzione è rivolta qui a Cristo, visto sia nella sua esistenza storica e incarnata che in quella di Risorto. Cristo è sia l’oggetto che il soggetto dell’Eucaristia, cioè colui che è realizzato nell’Eucaristia e colui che realizza l’Eucaristia. “Realismo”, perché questo Gesù non è visto presente sull’altare semplicemente in un segno o in un simbolo, ma in verità e con la sua realtà. Tale realismo cristologico è visibile, per fare un esempio, nel canto Ave verum: “Salve, vero corpo, nato da Maria Vergine, che realmente hai sofferto e fosti immolato sulla croce per l’uomo, il cui fianco squarciato ha effuso sangue ed acqua…”.
Veramente, realmente e sostanzialmente
Il concilio di Trento, in seguito, ha precisato meglio questo modo di concepire la presenza reale, usando tre avverbi: vere, realiter, substantialiter. Gesù è presente veramente, non solo in immagine, o in figura; è presente realmente, non solo soggettivamente, per la fede dei credenti; è presente sostanzialmente, cioè secondo la sua realtà profonda che è invisibile ai sensi, e non secondo le apparenze che restano quelle del pane e del vino.
Ci poteva essere, è vero, il pericolo di cadere in un “crudo” realismo, o in un realismo esagerato. Ma il rimedio a tale pericolo è nella tradizione stessa. Sant’Agostino ha chiarito, una volta per sempre, che la presenza di Gesù nell’Eucaristia avviene “in sacramento”. Non è, in altre parole, una presenza fisica, ma sacramentale, mediata da segni che sono, appunto, il pane e il vino. In questo caso, però, il segno non esclude la realtà, ma la rende presente, nell’unico modo con cui il Cristo risorto che “vive nello Spirito” (1 Pt 3, 18) può rendersi presente a noi, finché viviamo ancora nel corpo.
San Tommaso d’Aquino – l’altro grande artefice della spiritualità eucaristica occidentale, insieme con sant’Ambrogio e sant’Agostino – dice la medesima cosa, parlando di una presenza di Cristo “secondo la sostanza” sotto le specie del pane e del vino . Dire infatti che Gesù si fa presente nell’Eucaristia con la sua sostanza, significa dire che si fa presente con la sua realtà vera e profonda, che può essere attinta solo mediante la fede.
Nell’inno Adoro te devote che riflette da vicino il pensiero dell’Aquinate e che è servito più che tanti libri a plasmare la pietà eucaristica latina, si dice: “Vista, tatto e gusto, tutto qui vien meno. La sicurezza viene solo dal credere ciò che si ascolta”. Visus tactus gustus in te fallitur – sed auditu solo tuto creditur”.
Gesù è presente, dunque, nell’Eucaristia in un modo unico che non ha riscontro altrove. Nessun aggettivo, da solo, è sufficiente a descrivere tale presenza; neppure l’aggettivo “reale”. Reale viene da res (cosa) e significa: a modo di cosa o di oggetto. Ma Gesù non è presente nell’Eucaristia come una “cosa” o un oggetto, ma come una persona. Se proprio si vuol dare un nome a questa presenza, meglio sarebbe chiamarla semplicemente presenza “eucaristica”, perché si realizza soltanto nell’Eucaristia.
L’azione dello Spirito Santo: la tradizione ortodossa
La teologia latina presenta tante ricchezze, ma non esaurisce – né potrebbe farlo – il mistero. È mancato ad essa, almeno in passato, il dovuto rilievo allo Spirito Santo, che pure è essenziale per capire l’Eucaristia. Ecco, allora, che ci volgiamo verso l’Oriente, per interrogare la tradizione ortodossa, con animo, però, ben diverso da un tempo: non più inquieti per la differenza, ma felici per il completamento che essa arreca alla nostra visione latina.
Nella tradizione ortodossa, infatti, è messa in piena luce l’azione dello Spirito Santo nella celebrazione eucaristica. Questo confronto ha già portato i suoi frutti, dopo il Concilio Vaticano II. Fino ad allora, nel canone romano della Messa, l’unica menzione dello Spirito Santo era quella, per inciso, della dossologia finale: “Per Cristo, con Cristo, in Cristo… nell’unità dello Spirito Santo…”. Ora, invece, tutti i canoni nuovi recano una doppia invocazione dello Spirito Santo: una sui doni, prima della consacrazione, e una sulla Chiesa, dopo la consacrazione.
Le liturgie orientali hanno attribuito sempre la realizzazione della presenza reale di Cristo sull’altare a un’operazione speciale dello Spirito Santo. Nell’anafora detta di san Giacomo, in uso nella Chiesa antiochena, lo Spirito Santo è invocato con queste parole: “Manda su noi e su questi santi doni presentati, il tuo santissimo Spirito, Signore e datore di vita, che siede con te, Dio e Padre, e con il tuo unico Figlio
Egli regna consostanziale e coeterno; ha parlato nella legge e nei profeti e nel Nuovo Testamento; è disceso, sotto forma di colomba, sul nostro Signore Gesù Cristo nel fiume Giordano e si è riposato su di lui; è disceso sui santi apostoli, il giorno di Pentecoste, sotto forma di lingue di fuoco. Manda questo tuo Spirito tre volte santo, Signore, su noi e su questi santi doni presentati, affinché, per la sua venuta, santa, buona e gloriosa, santifichi questo pane e ne faccia il santo corpo di Cristo (Amen), santifichi questo calice e ne faccia il sangue prezioso di Cristo (Amen)”.
C’è, qui, ben più che la semplice aggiunta dell’invocazione dello Spirito Santo. C’è uno sguardo ampio e penetrante in tutta la storia della salvezza che aiuta a scoprire una dimensione nuova del mistero eucaristico. Partendo dalle parole del simbolo niceno costantinopolitano che definiscono lo Spirito Santo “Signore” e “Datore di vita”, “che ha parlato per mezzo dei profeti”, si amplia la prospettiva fino a tracciare una vera e propria “storia” dell’azione dello Spirito Santo.
L’Eucaristia porta a compimento questa serie di interventi prodigiosi. Lo Spirito Santo che a Pasqua irruppe nel sepolcro e, “toccando” il corpo inanimato di Gesù, lo fece rivivere, nell’Eucaristia ripete questo prodigio. Egli viene sul pane e sul vino che sono elementi morti e dà loro la vita, ne fa il corpo e il sangue viventi del Redentore. Veramente – come disse Gesù stesso, parlando dell’Eucaristia – “è lo Spirito che dà la vita” (Gv 6, 63).
Un grande rappresentante della tradizione eucaristica orientale, Teodoro di Mopsuestia, scrive:
In virtù dell’azione liturgica, il nostro Signore è come risuscitato dai morti e spande la sua grazia su noi tutti, per la venuta dello Spirito Santo… Quando il pontefice dichiara che questo pane e questo vino sono il corpo e il sangue di Cristo, afferma che lo sono diventati per il contatto dello Spirito Santo. Avviene come del corpo naturale di Cristo, quando ricevette lo Spirito Santo e la sua unzione. In quel momento, al sopraggiungere dello Spirito Santo, noi crediamo che il pane e il vino ricevono una specie di unzione di grazia. E da allora li crediamo essere il corpo e il sangue di Cristo, immortali, incorruttibili, impassibili e immutabili per natura, come il corpo stesso di Cristo nella risurrezione.
È importante, però, tener conto di una cosa – e qui si vede come anche la tradizione latina ha qualcosa da offrire ai fratelli ortodossi. Lo Spirito Santo non agisce separatamente da Gesù, ma dentro la parola di Gesù. Di lui Gesù disse: “Non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito… Egli mi glorificherà perché prenderà del mio e ve l’annunzierà” (Gv 16, 13-14). Ecco perché non bisogna separare le parole di Gesù (“Questo è il mio corpo”) dalle parole dell’epiclesi (“Lo Spirito Santo faccia di questo pane il corpo di Cristo”).
L’appello all’unità, per i cattolici e i fratelli ortodossi, sale dalle profondità stesse del mistero eucaristico. Anche se, per necessità di cose, il ricordo dell’istituzione e l’invocazione dello Spirito avvengono in momenti distinti (l’uomo non può esprimere il mistero in un solo istante), la loro azione, però, è congiunta. L’efficacia viene certamente dallo Spirito (non dal sacerdote, né dalla Chiesa), ma tale efficacia si esercita dentro la parola di Cristo e attraverso di essa.
L’efficacia che rende presente Gesù sull’altare non viene – ho detto – dalla Chiesa, ma – aggiungo – non avviene senza la Chiesa. Essa è lo strumento vivente, attraverso il quale e insieme con il quale opera lo Spirito Santo. Avviene, per la venuta di Gesù sull’Altare, come per la venuta finale in gloria: “Lo Spirito e la Sposa” (la Chiesa!) “dicono” a Gesù: “Vieni!” (cf Ap 22, 17). Ed egli viene.
L’importanza della fede: la spiritualità protestante
La tradizione latina ha messo in luce “chi” è presente nell’Eucaristia, Cristo; la tradizione ortodossa ha messo in luce “da chi” è operata la sua presenza, dallo Spirito Santo; la teologia protestante mette in luce “su chi” opera tale presenza. In altre parole, a quali condizioni, il sacramento opera, di fatto, in chi lo riceve, quello che significa. Queste condizioni sono diverse, ma si riassumono in una parola: la fede.
Non fermiamoci subito alle conseguenze negative, tratte, in certi periodi, dal principio protestante secondo cui i sacramenti non sono che “segni della fede”. Oltrepassiamo i malintesi e la polemica e allora troviamo che questo energico richiamo alla fede è salutare proprio per salvare il sacramento e non farlo scadere a una delle “buone opere”, o a qualcosa che agisce meccanicamente e magicamente, quasi all’insaputa dell’uomo. Si tratta, in fondo, di scoprire il profondo significato di quell’esclamazione che la liturgia fa risuonare al termine della consacrazione e che, una volta, ce lo ricordiamo, era addirittura inserita al centro della formula di consacrazione, quasi a sottolineare che la fede è parte essenziale del mistero: Mysterium fidei, mistero della fede!
La fede non “fa”, ma solo “riceve” il sacramento. Solo la parola di Cristo ripetuta dalla Chiesa e resa efficace dallo Spirito Santo “fa” il sacramento. Ma che gioverebbe un sacramento “fatto”, ma non “ricevuto”? A proposito dell’Incarnazione, uomini come Origene, sant’Agostino, san Bernardo, hanno espresso, questo pensiero: “Che giova a me che Cristo sia nato una volta da Maria a Betlemme, se non nasce anche, per fede, nel mio cuore?” La stessa cosa si deve dire anche dell’Eucaristia; che giova a me che Cristo sia realmente presente sull’altare, se egli non è presente per me?
Già al tempo in cui Gesù era presente fisicamente sulla terra, occorreva la fede; altrimenti – come ripete tante volte egli stesso nel Vangelo – la sua presenza non serviva a niente, se non a condanna: “Guai a te Gorozaim, guai a te Cafarnao!”.
Fede personale
La fede è necessaria perché la presenza di Gesù nell’Eucaristia sia, non soltanto “reale”, ma anche “personale”, cioè da persona a persona. Altro è infatti “esserci” e altro “essere presente”. La presenza suppone uno che è presente e uno al quale è presente; suppone comunicazione reciproca, lo scambio tra due soggetti liberi, che si accorgono l’uno dell’altro. È molto di più, quindi, che non il semplice essere in un certo luogo.
Lutero
Una tale dimensione soggettiva ed esistenziale della presenza eucaristica non annulla la presenza oggettiva che precede la fede dell’uomo, ma anzi la suppone e la valorizza. Lutero, che ha tanto esaltato il ruolo della fede, è anche uno di quelli che hanno sostenuto con più vigore la dottrina della presenza reale di Cristo nel sacramento dell’altare.
Nel corso di un dibattito con altri riformatori su questo tema, egli affermò con grande vigore: “Non posso intendere le parole “Questo è il mio corpo”, diversamente da come suonano. Tocca quindi agli altri dimostrare che là dove la parola dice: “Questo è il mio corpo”, il corpo di Cristo non c’è. Non voglio ascoltare spiegazioni basate sulla ragione. Di fronte a parole tanto chiare, non ammetto domande; respingo il raziocinio e la sana ragione umana. Dimostrazioni materiali, argomentazioni geometriche: tutto respingo completamente. Dio sta al di sopra di qualsiasi matematica e bisogna adorare con stupore la Parola di Dio”.
Il rapido sguardo che abbiamo gettato sulla ricchezza delle varie tradizioni cristiane è stato sufficiente a farci intravedere quale dono immenso si dischiude alla Chiesa, quando le varie confessioni cristiane decidono di mettere in comune i loro beni spirituali, come facevano i primi cristiani, dei quali è detto che “tenevano ogni cosa in comune” (At 2, 44). È questa l’agape più grande, a dimensione di tutta la Chiesa, che il Signore ci mette in cuore di desiderare di vedere, per la gioia del comune Padre e il rinvigorimento della sua Chiesa.
Sentimento di presenza
Siamo giunti alla fine del nostro breve pellegrinaggio eucaristico attraverso le varie confessioni cristiane. Abbiamo raccolto anche noi alcune ceste di frammenti avanzati dalla grande moltiplicazione dei pani avvenuta nella Chiesa. Ma non possiamo terminare qui la nostra meditazione sul mistero della presenza reale. Sarebbe come un aver raccolto i frammenti e non mangiarli. La fede nella presenza reale è una grande cosa, ma non ci basta; almeno la fede intesa in un certo modo. Non basta avere un’idea teologicamente perfetta e ecumenicamente aperta, della presenza reale di Gesù nell’Eucaristia. Quanti, tra i teologi, sanno tutto su tale mistero ma non conoscono la presenza reale.
Perché “conosce”, in senso biblico, una cosa, solo chi fa l’esperienza di quella cosa. Conosce veramente il fuoco solo chi, almeno una volta, è stato raggiunto da una fiamma e ha dovuto tirarsi velocemente indietro per non scottarsi.
San Gregorio Nisseno ci ha lasciato un’espressione stupenda per indicare questo più alto livello di fede; parla di “un certo sentimento di presenza” (aisthesis tes parusias). Esso si ha quando uno è colto dalla presenza di Dio, ha una certa percezione (non solo un’idea) che egli è presente. Non si tratta di una percezione naturale; è frutto di una grazia che opera come una rottura di livello, un salto di qualità. C’è un’analogia molto forte con ciò che avveniva quando, dopo la risurrezione, Gesù si faceva riconoscere da qualcuno. Era una cosa improvvisa che, di colpo, cambiava completamente lo stato d’animo di una persona.
Un giorno, dopo la risurrezione, gli apostoli sono sul lago a pescare; sulla riva compare un uomo. Si instaura un dialogo a distanza: “Non avete nulla da mangiare?”; rispondono: “No!” Ma ecco che scocca una scintilla nel cuore di Giovanni ed egli lancia un grido: “È il Signore!” e allora tutto cambia e corrono verso la riva (cf Gv 21, 4 ss).
La stessa cosa avviene con i discepoli di Emmaus; Gesù camminava con loro, “ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo”. Finalmente, all’atto di spezzare il pane, ecco che “si aprirono i loro occhi e lo riconobbero” (Lc 24, 13 ss). Ecco, una cosa simile avviene il giorno in cui un cristiano, dopo aver ricevuto tante e tante volte Gesù nell’Eucaristia, finalmente, per un dono di grazia, lo “riconosce”.
Tenerezza verso Gesù sacramentato
Dalla fede e dal “sentimento” della presenza reale, deve sbocciare spontaneamente la riverenza e, anzi, la tenerezza verso Gesù sacramentato. È questo un sentimento così delicato e personale che solo a parlarne si rischia di sciuparlo. San Francesco d’Assisi ebbe il cuore ricolmo di tali sentimenti verso Gesù nell’Eucaristia. Egli si intenerisce davanti a Gesù sacramentato, come a Greccio si inteneriva davanti al Bambino di Betlemme; lo vede così abbandonato nelle nostre mani, così inerme, così umile. Nella sua Lettera a tutto l’Ordine egli scrive delle parole di fuoco che vogliamo ascoltare come rivolte a noi in questo momento, a conclusione della nostra meditazione sulla presenza reale di Gesù nell’Eucaristia:
“Badate alla vostra dignità, fratelli sacerdoti, e siate santi perché egli è santo… Grande miseria sarebbe, e miseranda meschinità se, avendo lui così presente, vi curaste di qualunque altra cosa che esista nel mondo intero.
Tutta l’umanità trepidi, l’universo intero tremi e il cielo esulti, quando sull’altare, nella mano del sacerdote, si rende presente Cristo, il Figlio del Dio vivo. O ammirabile altezza e degnazione stupenda! O umiltà sublime! Sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascondersi, per la nostra salvezza, sotto poca apparenza di pane!
Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio, ed aprite davanti a lui i vostri cuori; umiliatevi anche voi, perché siate da lui esaltati. Nulla, dunque, di voi trattenete per voi, affinché totalmente vi accolga colui che totalmente a voi si offre”.