30 giorni senza i social. Cosa accade quando ci si disconnette davvero

30 giorni senza i social
Lo scrittore con un gruppo di ragazzi @ Fernando Muraca

Sette ore al giorno. È il tempo che molti adolescenti passano incollati a schermi di ogni tipo: social, serie TV, chat…Un dato allarmante che ci pone di fronte a una realtà innegabile: a quindici anni sembra non esserci vita senza social. Ma cosa succederebbe se provassimo a invertire la rotta? Lo scrittore e regista Fernando Muraca, nel suo libro Liberamente Veronica (Citta Nuova, 176 pagine, 13 euro) lancia una provocatoria sfida ai giovani: 30 giorni senza i social. Riescono i nostri adolescenti  a vivere senza smartphone? Un’utopia? Forse no. In questa intervista, Muraca ci racconta le storie di chi ha accettato questa sfida, svelandoci cosa accade quando ci si disconnette davvero. Una esperienza proposta a oltre 30 mila studenti delle scuole medie e superiori in tutta Italia.

Muraca, di cosa tratta Liberamente Veronica?

«È la storia di una ragazzina di 14 anni che decide di disconnettersi dai social per vedere cosa accade nella sua vita. Deve affrontare una serie di problemi: come incontrare gli amici, come comunicare con loro, come portare avanti un amore. Deve utilizzare gli strumenti di una volta e questo la porta a una serie di scoperte. Per potere scrivere questo libro ho dovuto affidarmi a dei consulenti, ragazzini e ragazzine che mi hanno fatto entrare nel linguaggio dei social e nell’uso specifico che ne fanno. Una volta scritto il libro era poi necessario trovare una ragazzina di quell’età disposta ad affrontare la sfida reale di vivere 30 giorni senza social. Per puro caso, ho incontrato una ragazza che si chiama  Veronica, proprio come la protagonista della storia. È stata lei la prima a sottoporsi all’esperimento».

Come descriverebbe il suo libro?

«È, prima di tutto, un romanzo che racconta una storia in cui gli adolescenti possono identificarsi. Ma, siccome è scandito in 30 giorni-capitoli, può anche diventare un percorso didattico per gli insegnanti delle scuole medie e superiori che possono proporlo alle loro classi».

Ha offerto questa esperienza a più di 30 mila ragazzi. In quanti l’hanno accettata?

«Quando ho cominciato a proporre l’idea nelle scuole, ho subito capito che le prospettive erano molto più grandi di quanto immaginassi. Ascoltando docenti e ragazzi mi sono reso conto di quanto grave fosse la situazione degli adolescenti e la loro dipendenza. All’inizio, se proponevo l’esperimento in una scuola, su 300 ragazzi solo in 4 o 5 riuscivano a portarlo a termine. Oggigiorno capita a volte che nessuno ci riesca, nonostante in molti vorrebbero farlo. Alcuni mi confessano piangendo che hanno una dipendenza così forte da non riuscire. Dei 30 mila ragazzi incontrati, solo un centinaio ha raccolto e concluso positivamente la sfida».

Quali sono stati i loro risultati?


«Chiamo “sentinelle del domani” questi ragazzi, invero quasi tutte ragazze: hanno acquisito un’autonomia tale da poter crescere liberi. Chi ha fatto l’esperimento ha redatto un diario che, col consenso dei genitori, ho potuto leggere per monitorare cosa fosse successo. L’esperienza consente di capire a fondo il problema. Non è sempre salvifica, ma rende coscienti della dipendenza e consente di mettere in atto opportune strategie. Il primo risultato è la consapevolezza del valore delle relazioni non filtrate da uno schermo. Il secondo effetto è la diminuzione della pressione psicologica sul corpo, dal quale le ragazze sono ossessionate. Mentre le adolescenti della nostra generazione dovevano confrontarsi solo con sorelle e compagne di scuola, oggi esse faticano a reggere il confronto con migliaia di immagini femminili apparentemente migliori della loro. È attenuando la pressione psicologica che si trova la libertà di esprimere sé stesse. Un altro risultato importantissimo è che si ha più tempo libero nel presente e nella vita reale: magari le giovani scoprono di avere un talento del quale, rinchiuse in questa bolla dei social che le rende omologate e fragili, non si erano accorte».

Non sarebbe sufficiente una sola settimana?

«No. Una settimana non basta. Le prime due sono terribili. Possiamo definire la prima una crisi di astinenza, mentre nella seconda, ancora più difficile, i ragazzi vedono crollare l’idea del mondo che si erano fatti. I benefici si manifestano dalla terza settimana, quando si attenua l’effetto dell’esposizione continua a modelli e stili di vita inarrivabili. Questo è il primo passo per chiamarsi fuori dai social. Quindi, l’esperimento ha senso se è compiuto per almeno 30 giorni».

Perché ha dedicato questa storia ai ragazzi iper-connessi?

«I miei figli adesso hanno 17, 21 e 23 anni. Avendo ben coscienza di ciò che esse implicano, mi sono dovuto porre il problema di come gestire queste tecnologie dal punto di vista educativo. Sono stato uno dei primi registi a lavorare con questi strumenti per produrre film, quindi conosco il potere delle immagini. Dunque, per l’uso della tecnologia in famiglia, bisognava trovare un metodo non da imporre, ma da costruire insieme. Abbiamo subito stabilito delle regole precise, come il non usare il telefonino a tavola. Un patto uguale per tutti, grandi e piccoli».

Fu un evento particolare a spingerla a scrivere?

«Un giorno a tavola il mio secondo figlio comunicò che un suo amico aveva un gravissimo problema: ossessionato dai giochi online, non usciva più di casa. Riconoscendo per la prima volta che le nostre regole nell’uso della tecnologia erano state utili, “papà, noi ci siamo salvati” mi disse “potresti fare qualcosa per lui?”». Fu poi mia figlia a lanciare l’idea di un romanzo per ragazzi. Quindi, il libro è nato così: intorno al tavolo di casa, con i miei figli. Sono stati loro a voler mostrare agli amici il capolavoro che possiamo realizzare con la nostra esistenza».