A una settimana dalla luce, la dichiarazione Dignitas Infinita, rilasciata dal cardinale Víctor Manuel Fernández della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha suscitato innumerevoli mozioni, nonché qualche disagio però c’è, forse, di uno dei documenti più illustrativi dei segni dei tempi che ci invita – ed esige – al metodo della Dottrina Sociale della Chiesa, questo esiste, cioè: vedere, giudicare e agire.
Diviso in due grandi parti: una che risponde ai fondamenti filosofici, antropologici e teologici della nozione di dignità umana e una seconda che descrive tredici attacchi contro di essa, una delle maggiori ricchezze del testo si trova nei riferimenti e nelle citazioni che includono una continuità nella linea di pensiero dei predecessori di Papa Francesco che dimostra che il tema della difesa della dignità di tutte le persone è sempre stato motivo di grande preoccupazione e di tagliente denuncia per la Chiesa, come afferma il cardinale Fernández nel paragrafo sesto della introduzione.
Di fronte alla critica incentrata sul riduzionismo e sulla semplicità con cui affronta le tredici violazioni della dignità umana, dovremmo rispondere che esse sono un prodotto della miopia ideologica che permea la lettura, poiché in ogni paragrafo ci sono infiniti riferimenti che loro sufficientemente conto che ogni argomento, e molti altri, sono sempre stati al centro della discussione e che c’è molto da studiare su ciascuno di essi.
Vorrei concentrare queste righe su tre risonanze che il documento ha avuto per me: quella riferita alla nozione stessa di dignità e alla sua torsione grammaticale, al necessario rapporto tra questa e i diritti umani che ha dato origine al più puro positivismo disincarnato e, una terza, che tenta di recuperare non ciò che è manifesto, ma ciò che è implicito, della nozione di dignità nelle tredici violazioni della stessa che il documento menziona.
Riguardo al primo, va detto che, sebbene il fondamento dato per la dignità della persona risieda nella natura umana come essere sussistente e relazionale, la riflessione può spingersi anche oltre, affermando che la stessa sussistenza si riferiva alla sostanza alla quale Boezio allude nella sua definizione di persona (numero 9 della dichiarazione) che, a sua volta, riprende da Aristotele, implica pensare che la dignità come sostanza informa l’essere della persona non accidentalmente ma proprio sostanzialmente.
Quanto sopra significa che la dignità umana è già sostanza in sé e non dipende da altro per esistere. Questa affermazione comporta una svolta radicale a livello grammaticale che porta a pensare che dignità sia un sostantivo in sé dotato di significato pieno e assoluto e non un aggettivo che si aggiunge a un altro sostantivo, che è “persona”. La persona poi viene dopo aver detto “dignità”, in modo tale che la dignità viene prima della persona e solo perché è così la persona può essere “degna” ma non come aggettivo ma come sostantivo.
Questo passaggio dalla dignità come aggettivo alla dignità come sostantivo è ciò che rende possibile che essa sia una nozione non accidentale, ma sostanziale e per questo motivo, come afferma la dichiarazione, non c’è né guadagno né perdita, né più né meno si fa, non dipende se qualcuno lo regala o lo toglie, tanto meno se viene riconosciuto o meno.
Quest’ultimo riconoscimento è ciò che ha dato origine al dibattito tra diritto naturale e positivismo, che ha portato a una nozione della dignità umana dipendente dai diritti umani, dalla loro dichiarazione e riconoscimento. Questo è un errore che deve essere smascherato. Passo ora, dunque, alla seconda riflessione.
Il rapporto tra diritti umani e dignità umana è un rapporto non dipendente che implica la premessa fondamentale del carattere ontologico dei primi e assiologico della seconda.
È dunque la dignità umana che dà origine alla formulazione dei diritti umani e al loro conseguente riconoscimento e tutela, ma anche se questi non fossero promulgati, sistematizzati e dichiarati, essi dovrebbero implicitamente essere rispettati, poiché emanano dalla dignità ontologica di tutti gli esseri umani. Pertanto, il rispetto dei diritti umani non dipende dalla loro formulazione positivista, ma dall’esistenza della dignità umana. Questa è la fonte dei diritti umani e non questi.
Infine, una terza riflessione è cosa significherebbe, per alcuni, che, dato che ci sono queste tredici violazioni della dignità umana, questa esiste; Si tenta cioè di dimostrare la dignità umana attraverso gli effetti causati dal suo danno in determinati scenari e, inoltre, si tenta di dimostrare che, data la possibilità di danno, esiste il dovere di proteggere. Come se il danno fosse occasione per far emergere l’affermazione della dignità.
Questo percorso induttivo è infruttuoso, poiché la dignità non appare solo quando viene lesa, ma permea tutto il tempo e lo spazio che una persona occupa nella storia; nel tuo e in quello dell’umanità. Quest’ultima è più importante, poiché, quando il documento afferma che è “infinita”, si riferisce alla dignità di ogni uomo in tutti e a quella di tutti in ogni uomo, come ha fatto Paolo VI nella Populorum Progressio (n. 14). Pertanto, il danno alla dignità di una persona implica un danno alla dignità di tutti, poiché tutti, equamente, condividiamo quella sostanzialità su cui poggia il nostro essere particolare nella storia universale. Da qui l’urgenza prevalente di riconoscere il danno perpetrato per ripararlo e, soprattutto, prevenirlo.
Tuttavia il documento concentra lo sguardo sulle persone che sono vittime di violazioni. Tradizionalmente, la giustizia ha trattato questi come principali soggetti di riparazione. Quindi, secondo altre concezioni della giustizia, come la giustizia transitoria o ripartiva, la vittima e l’autore del reato hanno lo stesso peso, poiché entrambi hanno subito un danno.
La vittima ha subito danni evidenti ma indiscutibili, così come l’autore del reato. Queste tredici violazioni e molte altre sono situazioni che mettono in ombra la possibilità che la persona si percepisca degna e libera. Quando ciò accade, è quasi inevitabile che anche lei percepisca gli altri come privi di valore e sia capace di privare anche lui della sua libertà. Quindi, l’autore del reato è anche qualcuno che ha subito la privazione di condizioni sociali, familiari, economiche, ecc., che gli permettono di risvegliare la sua coscienza a riconoscere la sua dignità e con essa quella degli altri.
Così, le tredici violazioni della dignità umana che il documento presenta sottolineano che si tratta di tutte situazioni e circostanze che minacciano la libertà della persona, condizione sine qua non perché la persona sia riconosciuta come sostanza in sé capace di libertà e se ne appropria affinché diriga le sue azioni al bene.
Con ciò, l’affermazione della dignità delle vittime e dei carnefici diventa visibile e ci sfida ad agire sia a favore delle prime che dei secondi, nella consapevolezza che entrambi, come tutti gli esseri umani, sono degni in modo indipendente e, come si legge nel documento, al di là di ogni circostanza.
In breve, ho cercato di presentare alcuni echi che la Dichiarazione ha suscitato in me, con l’intento di approfondire l’importanza che, oggi, nel complesso mondo in cui viviamo, la centralità della dignità umana come asse conduttore delle azioni e delle decisioni che noi deve farsi carico della degradazione dell’essere umano proveniente da correnti pragmatiche e utilitaristiche che insistono nel cancellarne il valore e a posizionarlo come una cosa tra le cose.