Questa mattina, nel Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza i giovani del “Progetto Policoro” promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha rivolto ai presenti nel corso dell’incontro:
Discorso del Santo Padre
Caro Monsignor Baturi, cari giovani, benvenuti!
Grazie per i saluti che mi avete rivolto. Questo incontro mi dà l’occasione di incoraggiare il percorso di formazione sociopolitica che dà continuità al “Progetto Policoro” della Chiesa italiana. Mi piace sottolineare che l’esigenza di questo percorso è nata dal basso, dal vostro bisogno di formarvi ad un servizio nella società e nella politica; e anche per potere, a vostra volta, collaborare alla formazione di altri giovani.
Quest’anno avete come tema la pace. È un tema che non può mancare nella formazione sociopolitica, e purtroppo è anche urgente a causa della situazione attuale. La guerra, è il fallimento della politica. Questo va sottolineato: la guerra è il fallimento della politica. Si alimenta del veleno che considera l’altro come nemico. La guerra ci fa toccare con mano l’assurdità della corsa agli armamenti e del loro uso per la risoluzione dei conflitti. Mi diceva un tecnico che se per un anno non si facessero armamenti si potrebbe eliminare la fame nel mondo. Dunque, ci vuole una “migliore politica” (cfr Enc. Fratelli tutti, cap. 5), che presuppone proprio ciò che state facendo voi, cioè educarsi alla pace. Questo è responsabilità di tutti. Fare la guerra ma un’altra guerra, una guerra interiore, una guerra su se stessi per lavorare per la pace.
Oggi la politica non gode di ottima fama, soprattutto fra i giovani, perché vedono gli scandali, tante cose che tutti conosciamo. Le cause sono molteplici, ma come non pensare alla corruzione, all’inefficienza, alla distanza dalla vita della gente? Proprio per questo c’è ancora più bisogno di buona politica. E la differenza la fanno le persone. Lo vediamo nelle amministrazioni locali: un conto è un sindaco o un assessore disponibile, e un altro è chi è inaccessibile; un conto è la politica che ascolta la realtà, che ascolta i poveri, e un altro è quella che sta chiusa nei palazzi, la politica “distillata”.
Mi viene in mente l’episodio biblico del re Acab e della vigna di Nabot. Il re vuole appropriarsi della vigna di Nabot, per allargare il suo giardino; ma Nabot non vuole e non può venderla, perché quella vigna è l’eredità dei suoi padri. Il re è arrabbiato e “mette il muso”, come un bambino viziato. Allora sua moglie, la regina Gezabele – che è un diavoletto! – risolve il problema facendo eliminare Nabot con una falsa accusa. Così Nabot viene ucciso e il re prende la sua vigna. Acab rappresenta la peggiore politica, quella di andare avanti e farsi spazio facendo fuori gli altri, quella che persegue non il bene comune ma interessi particolari e usa ogni mezzo per soddisfarli. Acab non è padre, è padrone, e il suo governo è il dominio. Sant’Ambrogio scrisse un libretto su questa storia biblica, intitolato La vigna di Nabot. A un certo punto, rivolgendosi ai potenti, Ambrogio scrive: «Perché scacciate chi è compartecipe ai beni della natura e rivendicate per voi soli il possesso dei beni naturali? La terra è stata creata in comunione per tutti, per ricchi e per poveri. […] La natura non sa cosa siano i ricchi, lei che genera tutti ugualmente poveri. Quando nasciamo non abbiamo vestiti, non veniamo al mondo carichi d’oro e d’argento. Questa terra ci mette al mondo nudi, bisognosi di cibo, di vesti e di bevande. La natura […] ci crea tutti uguali e tutti ugualmente ci racchiude nel grembo di un sepolcro» (1, 2). Questa piccola ma preziosa opera di Sant’Ambrogio sarà utile per la vostra formazione. La politica che esercita il potere come dominio e non come servizio non è capace di prendersi cura, calpesta i poveri, sfrutta la terra e affronta i conflitti con la guerra, non sa dialogare.
Come esempio biblico positivo possiamo prendere la figura di Giuseppe figlio di Giacobbe. Ricordate che lui viene venduto come schiavo dai suoi fratelli, che erano invidiosi di lui, e viene portato in Egitto. Lì, dopo alcune peripezie, viene liberato, entra al servizio del Faraone e diventa una specie di Viceré. Giuseppe non si comporta da padrone, ma da padre: si prende cura del Paese; quando arriva la carestia organizza le riserve di grano per il bene comune, tanto che il Faraone dice al popolo: «Fate quello che [Giuseppe] vi dirà» (Gen 41,55) – la stessa frase che Maria dirà ai servi alle nozze di Cana riferendosi a Gesù –. Giuseppe, che ha sofferto l’ingiustizia personalmente, non cerca il proprio interesse ma quello del popolo, paga di persona per il bene comune, si fa artigiano di pace, tesse rapporti capaci di innovare la società. Scriveva Don Lorenzo Milani: «Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia».[1] È così, è semplice.
Questi due esempi biblici, uno negativo, l’altro positivo, ci aiutano a capire quale spiritualità può alimentare la politica. Ne colgo solo due aspetti: la tenerezza e la fecondità. La tenerezza «è l’amore che si fa vicino e concreto. […] È la strada che hanno percorso gli uomini e le donne più coraggiosi e forti. In mezzo all’attività politica, i più piccoli, i più deboli, i più poveri debbono intenerirci: hanno “diritto” di prenderci l’anima e il cuore» (Enc. Fratelli tutti, 194). La fecondità è fatta di condivisione, di sguardo a lungo termine, di dialoghi, di fiducia, di comprensione, di ascolto, di tempo speso, di risposte pronte e non rimandate. Significa guardare all’avvenire e investire sulle generazioni future; avviare processi piuttosto che occupare spazi. Questa è la regola d’oro: la tua attività è per occupare uno spazio per te? Non va. Per il tuo gruppo? Non va. Occupare spazi non va, avviare processi va. Il tempo è superiore allo spazio.
Cari amici, vorrei concludere proponendovi le domande che ogni buon politico dovrebbe farsi: «Quanto amore ho messo nel mio lavoro? In che cosa ho fatto progredire il popolo? Che impronta ho lasciato nella vita della società? Quali legami reali ho costruito? Quali forze positive ho liberato? Quanta pace sociale ho seminato? Che cosa ho prodotto nel posto che mi è stato affidato?» (ibid., 197). La vostra preoccupazione non sia il consenso elettorale né il successo personale, ma coinvolgere le persone, generare imprenditorialità, far fiorire sogni, far sentire la bellezza di appartenere a una comunità. La partecipazione è il balsamo sulle ferite della democrazia. Vi invito a dare il vostro contributo, a partecipare e a invitare i vostri coetanei a farlo, sempre con il fine e lo stile del servizio. Il politico è un servitore; quando il politico non è un servitore è un cattivo politico, non è un politico.
Grazie del vostro impegno. Andate avanti e che la Madonna vi accompagni. Di cuore vi benedico, e vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie!
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[1] Lettera a una professoressa, Firenze 1994, 14.