Papa Francesco: quattro sfide globali per una maggiore unità

Discorso di apertura del VII Congresso dei leader delle religioni mondiali e tradizionali

© Vatican Media

Questa mattina, il Santo Padre Francesco ha lasciato la Nunziatura Apostolica e si è trasferito in auto al Palazzo dell’Indipendenza, dove – alle ore 10.00 (6.00 ora di Roma) – presso la Sala delle Conferenze ha avuto luogo la Preghiera in silenzio dei Leader religiosi.

Conclusa la preghiera ha avuto inizio il “VII Congress of Leaders of World and Traditional Religions” e si è tenuta la Sessione Plenaria.

Dopo l’intervento del Presidente della Repubblica del Kazakhstan, S.E. il Sig. KassymJomart K. Tokayev, il Papa ha pronunciato il Suo discorso.

Al termine, il Santo Padre, insieme agli altri Leader, si è recato nell’atrio del Palazzo dell’Indipendenza. Dopo la foto di gruppo, Papa Francesco ha incontrato, in forma privata, alcuni Leader religiosi.

Quindi il Papa si è congedato dai presenti ed è rientrato in auto alla Nunziatura Apostolica.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre ha pronunciato all’apertura del Congresso dei Leader delle Religioni Mondiali e Tradizionali nel corso della Sessione Plenaria:

Discorso del Santo Padre

Fratelli e sorelle!

Permettetemi di rivolgermi a voi con queste parole dirette e familiari: fratelli e sorelle. Così desidero salutarvi, Capi religiosi e Autorità, membri del Corpo diplomatico e delle Organizzazioni internazionali, Rappresentanti di istituzioni accademiche e culturali, della società civile e di varie organizzazioni non governative, in nome di quella fratellanza che tutti ci unisce, in quanto figli e figlie dello stesso Cielo.

Di fronte al mistero dell’infinito che ci sovrasta e ci attira, le religioni ci ricordano che siamo creature: non siamo onnipotenti, ma donne e uomini in cammino verso la medesima meta celeste. La creaturalità che condividiamo instaura così una comunanza, una reale fraternità. Ci rammenta che il senso della vita non può ridursi ai nostri interessi personali, ma si inscrive nella fratellanza che ci contraddistingue. Cresciamo solo con gli altri e grazie agli altri. Cari Leader e Rappresentanti delle religioni mondiali e tradizionali, ci troviamo in una terra percorsa nei secoli da grandi carovane: in questi luoghi, anche attraverso l’antica via della seta, si sono intrecciate tante storie, idee, fedi e speranze. Possa il Kazakhstan essere ancora una volta terra d’incontro tra chi è distante. Possa aprire una nuova via di incontro, incentrata sui rapporti umani: sul rispetto, sull’onestà del dialogo, sul valore imprescindibile di ciascuno, sulla collaborazione; una via fraterna per camminare insieme verso la pace.

Ieri ho preso in prestito l’immagine della dombra; oggi allo strumento musicale vorrei associare una voce, quella del poeta più celebre del Paese, padre della sua moderna letteratura, l’educatore e compositore spesso raffigurato proprio insieme alla dombra. Abai (1845-1904), come popolarmente è chiamato, ci ha lasciato scritti impregnati di religiosità, nei quali traspare la migliore anima di questo popolo: una saggezza armoniosa, che desidera la pace e la ricerca interrogandosi con umiltà, anelando a una sapienza degna dell’uomo, mai chiusa in visioni ristrette e anguste, ma disposta a lasciarsi ispirare da molteplici esperienze. Abai ci provoca con un interrogativo intramontabile: «Qual è la bellezza della vita, se non si va in profondità?» (Poesia, 1898). Un altro poeta si chiedeva il senso dell’esistenza, mettendo sulle labbra di un pastore di queste sconfinate terre d’Asia una domanda altrettanto essenziale: «Ove tende questo vagar mio breve?» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia). Sono interrogativi come questi a suscitare il bisogno della religione, a ricordarci che noi esseri umani non esistiamo tanto per soddisfare interessi terreni e per tessere relazioni di sola natura economica, quanto per camminare insieme, come viandanti con lo sguardo rivolto al Cielo. Abbiamo bisogno di trovare un senso alle domande ultime, di coltivare la spiritualità; abbiamo bisogno, diceva Abai, di mantenere «desta l’anima e limpida la mente» (Parola 6).

Fratelli e sorelle, il mondo attende da noi l’esempio di anime deste e di menti limpide, attende religiosità autentica. È venuta l’ora di destarsi da quel fondamentalismo che inquina e corrode ogni credo, l’ora di rendere limpido e compassionevole il cuore. Ma è anche l’ora di lasciare solo ai libri di storia i discorsi che per troppo tempo, qui e altrove, hanno inculcato sospetto e disprezzo nei riguardi della religione, quasi fosse un fattore di destabilizzazione della società moderna. In questi luoghi è ben nota l’eredità dell’ateismo di Stato, imposto per decenni, quella mentalità opprimente e soffocante per la quale il solo uso della parola “religione” creava imbarazzo. In realtà, le religioni non sono problemi, ma parte della soluzione per una convivenza più armoniosa. La ricerca della trascendenza e il sacro valore della fraternità possono infatti ispirare e illuminare le scelte da prendere nel contesto delle crisi geopolitiche, sociali, economiche, ecologiche ma, alla radice, spirituali che attraversano molte istituzioni odierne, anche le democrazie, mettendo a repentaglio la sicurezza e la concordia tra i popoli. Abbiamo dunque bisogno di religione per rispondere alla sete di pace del mondo e alla sete di infinito che abita il cuore di ogni uomo.

Per questo, condizione essenziale per uno sviluppo davvero umano e integrale è la libertà religiosa. Fratelli, sorelle, siamo creature libere. Il nostro Creatore si è “fatto da parte per noi”, ha, per così dire, “limitato” la sua libertà assoluta per fare anche di noi delle creature libere. Come possiamo allora costringere dei fratelli in nome suo? «Mentre crediamo e adoriamo – insegnava Abai –, non dobbiamo dire che possiamo costringere gli altri a credere e adorare» (Parola 45). La libertà religiosa è un diritto fondamentale, primario e inalienabile, che occorre promuovere ovunque e che non può limitarsi alla sola libertà di culto. È infatti diritto di ogni persona rendere pubblica testimonianza al proprio credo: proporlo senza mai imporlo. È la buona pratica dell’annuncio, differente dal proselitismo e dall’indottrinamento, da cui tutti sono chiamati a tenersi distanti. Relegare alla sfera del privato il credo più importante della vita priverebbe la società di una ricchezza immensa; favorire, al contrario, contesti dove si respira una rispettosa convivenza delle diversità religiose, etniche e culturali è il modo migliore per valorizzare i tratti specifici di ciascuno, di unire gli esseri umani senza uniformarli, di promuoverne le aspirazioni più alte senza tarparne lo slancio.


Ecco dunque, accanto al valore immortale della religione, quello attuale, che il Kazakhstan mirabilmente promuove, ospitando da un ventennio questo Congresso di rilevanza mondiale. La presente edizione ci porta a riflettere sul nostro ruolo nello sviluppo spirituale e sociale dell’umanità durante il periodo post-pandemico.

La pandemia, tra vulnerabilità e cura, rappresenta la prima di quattro sfide globali che vorrei delineare e che richiamano tutti – ma in modo speciale le religioni – a una maggiore unità d’intenti. Il Covid-19 ci ha messo tutti sullo stesso piano. Ci ha fatto capire che, come diceva Abai, «non siamo demiurghi, ma mortali» (ibid.): tutti ci siamo sentiti fragili, tutti bisognosi di assistenza; nessuno pienamente autonomo, nessuno completamente autosufficiente. Ora, però, non possiamo dilapidare il bisogno di solidarietà che abbiamo avvertito andando avanti come se nulla fosse successo, senza lasciarci interpellare dall’esigenza di affrontare insieme le urgenze che riguardano tutti. A ciò le religioni non devono essere indifferenti: sono chiamate a stare in prima linea, ad essere promotrici di unità di fronte a prove che rischiano di dividere ancora di più la famiglia umana.

Nello specifico, sta a noi, che crediamo nel Divino, aiutare i fratelli e le sorelle della nostra epoca a non dimenticare la vulnerabilità che ci caratterizza: a non cadere in false presunzioni di onnipotenza suscitate da progressi tecnici ed economici, che da soli non bastano; a non farsi imbrigliare nei lacci del profitto e del guadagno, quasi fossero i rimedi a tutti i mali; a non assecondare uno sviluppo insostenibile che non rispetti i limiti imposti dal creato; a non lasciarsi anestetizzare dal consumismo che stordisce, perché i beni sono per l’uomo e non l’uomo per i beni. Insomma, la nostra comune vulnerabilità, emersa durante la pandemia, dovrebbe stimolarci a non andare avanti come prima, ma con più umiltà e lungimiranza.

Oltre a sensibilizzare sulla nostra fragilità e responsabilità, i credenti nel post-pandemia sono chiamati alla cura: a prendersi cura dell’umanità in tutte le sue dimensioni, diventando artigiani di comunione – ripeto la parola: artigiani di comunione –, testimoni di una collaborazione che superi gli steccati delle proprie appartenenze comunitarie, etniche, nazionali e religiose. Ma come intraprendere una missione così ardua? Da dove iniziare? Dall’ascolto dei più deboli, dal dare voce ai più fragili, dal farsi eco di una solidarietà globale che in primo luogo riguardi loro, i poveri, i bisognosi che più hanno sofferto la pandemia, la quale ha fatto prepotentemente emergere l’iniquità delle disuguaglianze planetarie. Quanti, oggi ancora, non hanno facile accesso ai vaccini, quanti! Stiamo dalla loro parte, non dalla parte di chi ha di più e dà di meno; diventiamo coscienze profetiche e coraggiose, facciamoci prossimi a tutti ma specialmente ai troppi dimenticati di oggi, agli emarginati, alle fasce più deboli e povere della società, a coloro che soffrono di nascosto e in silenzio, lontano dai riflettori. Quanto vi propongo non è solo una via per essere più sensibili e solidali, ma un percorso di guarigione per le nostre società. Sì, perché è proprio l’indigenza a permettere il dilagare di epidemie e di altri grandi mali che prosperano sui terreni del disagio e delle disuguaglianze. Il maggior fattore di rischio dei nostri tempi permane la povertà. A tale proposito Abai saggiamente si domandava: «Possono quanti hanno fame custodire una mente limpida […] e mostrare diligenza nell’apprendere? Povertà e liti […] generano […] violenza e avidità» (Parola 25). Fino a quando continueranno a imperversare disparità e ingiustizie, non potranno cessare virus peggiori del Covid: quelli dell’odio, della violenza, del terrorismo.

E questo ci porta alla seconda sfida planetaria che interpella in modo particolare i credenti: la sfida della pace. Negli ultimi decenni il dialogo tra i responsabili delle religioni ha riguardato soprattutto questa tematica. Eppure, vediamo i nostri giorni ancora segnati dalla piaga della guerra, da un clima di esasperati confronti, dall’incapacità di fare un passo indietro e tendere la mano all’altro. Occorre un sussulto e occorre, fratelli e sorelle, che venga da noi. Se il Creatore, a cui dedichiamo l’esistenza, ha dato origine alla vita umana, come possiamo noi, che ci professiamo credenti, acconsentire che essa venga distrutta? E come possiamo pensare che gli uomini del nostro tempo, molti dei quali vivono come se Dio non esistesse, siano motivati a impegnarsi in un dialogo rispettoso e responsabile se le grandi religioni, che costituiscono l’anima di tante culture e tradizioni, non si impegnano attivamente per la pace?

Memori degli orrori e degli errori del passato, uniamo gli sforzi, affinché mai più l’Onnipotente diventi ostaggio della volontà di potenza umana. Abai rammenta che “colui che permette il male e non si oppone al male non può essere considerato un vero credente ma, nel migliore dei casi, un credente tiepido” (cfr Parola 38). Fratelli e sorelle, è necessaria, per tutti e per ciascuno, una purificazione dal male. Il grande poeta kazako insisteva su questo aspetto, scrivendo che chi «abbandona l’apprendimento si priva di una benedizione» e «chi non è severo con sé stesso e non è capace di compassione non può essere considerato credente» (Parola 12). Fratelli e sorelle, purifichiamoci, dunque, dalla presunzione di sentirci giusti e di non avere nulla da imparare dagli altri; liberiamoci da quelle concezioni riduttive e rovinose che offendono il nome di Dio attraverso rigidità, estremismi e fondamentalismi, e lo profanano mediante l’odio, il fanatismo e il terrorismo, sfigurando anche l’immagine dell’uomo. Sì, perché «la fonte dell’umanità – ricorda Abai – è amore e giustizia, […] sono esse le corone della creazione divina» (Parola 45). Non giustifichiamo mai la violenza. Non permettiamo che il sacro venga strumentalizzato da ciò che è profano. Il sacro non sia puntello del potere e il potere non si puntelli di sacralità!

Dio è pace e conduce sempre alla pace, mai alla guerra. Impegniamoci dunque, ancora di più, a promuovere e rafforzare la necessità che i conflitti si risolvano non con le inconcludenti ragioni della forza, con le armi e le minacce, ma con gli unici mezzi benedetti dal Cielo e degni dell’uomo: l’incontro, il dialogo, le trattative pazienti, che si portano avanti pensando in particolare ai bambini e alle giovani generazioni. Esse incarnano la speranza che la pace non sia il fragile risultato di affannosi negoziati, ma il frutto di un impegno educativo costante, che promuova i loro sogni di sviluppo e di futuro. Abai, in tal senso, incoraggiava a espandere il sapere, a valicare il confine della propria cultura, ad abbracciare la conoscenza, la storia e la letteratura degli altri. Investiamo, vi prego, in questo: non negli armamenti, ma nell’istruzione!

Dopo quelle della pandemia e della pace, raccogliamo una terza sfida, quella dell’accoglienza fraterna. Oggi è grande la fatica di accettare l’essere umano. Ogni giorno nascituri e bambini, migranti e anziani vengono scartati. C’è una cultura dello scarto. Tanti fratelli e sorelle muoiono sacrificati sull’altare del profitto, avvolti dall’incenso sacrilego dell’indifferenza. Eppure ogni essere umano è sacro. «Homo sacra res homini», dicevano gli antichi (Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, 95,33): è compito anzitutto nostro, delle religioni, ricordarlo al mondo! Mai come ora assistiamo a grandi spostamenti di popolazioni, causati da guerre, povertà, cambiamenti climatici, dalla ricerca di un benessere che il mondo globalizzato permette di conoscere, ma a cui è spesso difficile accedere. Un grande esodo è in corso: dalle aree più disagiate si cerca di raggiungere quelle più benestanti. Lo vediamo tutti i giorni, nelle diverse migrazioni nel mondo. Non è un dato di cronaca, è un fatto storico che richiede soluzioni condivise e lungimiranti. Certo, viene istintivo difendere le proprie sicurezze acquisite e chiudere le porte per paura; è più facile sospettare dello straniero, accusarlo e condannarlo piuttosto che conoscerlo e capirlo. Ma è nostro dovere ricordare che il Creatore, il quale veglia sui passi di ogni creatura, ci esorta ad avere uno sguardo simile al suo, uno sguardo che riconosca il volto del fratello. Il fratello migrante bisogna riceverlo, accompagnarlo, promuoverlo e integrarlo.

La lingua kazaka invita a questo sguardo accogliente: in essa “amare” letteralmente significa “avere uno sguardo buono su qualcuno”. Ma anche la cultura tradizionale di queste regioni afferma la medesima cosa attraverso un bel proverbio popolare: «Se incontri qualcuno, cerca di renderlo felice, forse è l’ultima volta che lo vedi». Se il culto dell’ospitalità della steppa ricorda il valore insopprimibile di ogni essere umano, Abai lo sancisce dicendo che «l’uomo dev’essere amico dell’uomo» e che tale amicizia si fonda su una condivisione universale, perché le realtà importanti della vita e dopo la vita sono comuni. E dunque, sentenzia, «tutte le persone sono ospiti l’una dell’altra» e «l’uomo stesso è un ospite in questa vita» (Parola 34). Riscopriamo l’arte dell’ospitalità, dell’accoglienza, della compassione. E impariamo pure a vergognarci: sì, a provare quella sana vergogna che nasce dalla pietà per l’uomo che soffre, dalla commozione e dallo stupore per la sua condizione, per il suo destino di cui sentirsi partecipi. È la via della compassione, che rende più umani e più credenti. Sta a noi, oltre che affermare la dignità inviolabile di ogni uomo, insegnare a piangere per gli altri, perché solo se avvertiremo come nostre le fatiche dell’umanità saremo veramente umani.

Un’ultima sfida globale ci interpella: la custodia della casa comune. Di fronte agli stravolgimenti climatici occorre proteggerla, perché non sia assoggettata alle logiche del guadagno, ma preservata per le generazioni future, a lode del Creatore. Scriveva Abai: «Che mondo meraviglioso ci ha dato il Creatore! Egli ci ha donato la sua luce con magnanimità e generosità. Quando la madre-terra ci ha nutriti al suo seno, il nostro Padre celeste con premura si è inclinato su di noi» (dalla poesia “Primavera”). Con cura amorevole l’Altissimo ha disposto una casa comune per la vita: e noi, che ci professiamo suoi, come possiamo permettere che venga inquinata, maltrattata e distrutta? Uniamo gli sforzi anche in questa sfida. Non è l’ultima per importanza. Essa, infatti, si ricollega alla prima, a quella pandemica. Virus come il Covid-19, che, pur microscopici, sono in grado di sgretolare le grandi ambizioni del progresso, spesso sono legati a un equilibrio deteriorato, in gran parte per causa nostra, con la natura che ci circonda. Pensiamo ad esempio alla deforestazione, al commercio illegale di animali vivi, agli allevamenti intensivi… È la mentalità dello sfruttamento a devastare la casa che abitiamo. Non solo: essa porta a eclissare quella visione rispettosa e religiosa del mondo voluta dal Creatore. Perciò è imprescindibile favorire e promuovere la custodia della vita in ogni sua forma.

Cari fratelli e sorelle, andiamo avanti insieme, perché il cammino delle religioni sia sempre più amichevole. Abai diceva che «un falso amico è come un’ombra: quando il sole splende su di te, non ti libererai di lui, ma quando le nuvole si addensano su di te, non si vedrà da nessuna parte» (Parola 37). Non ci capiti questo: l’Altissimo ci liberi dalle ombre del sospetto e della falsità; ci conceda di coltivare amicizie solari e fraterne, attraverso il dialogo frequente e la luminosa sincerità delle intenzioni. E vorrei ringraziare qui per lo sforzo del Kazakhstan su questo punto: cercare sempre di unire, cercare sempre di provocare il dialogo, cercare sempre di fare amicizia. Questo è un esempio che il Kazakhstan dà a tutti noi e dobbiamo seguirlo, assecondarlo. Non cerchiamo finti sincretismi concilianti – non servono –, ma custodiamo le nostre identità aperti al coraggio dell’alterità, all’incontro fraterno. Solo così, su questa strada, nei tempi bui che viviamo, potremo irradiare la luce del nostro Creatore. Grazie a tutti voi!