E’ stato presentato in video conferenza il Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo, che la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) pubblica ogni due anni. Il dossier è giunto alla XV edizione. Il documento evidenzia che in una nazione su tre si registrano gravi violazioni della libertà religiosa. Secondo lo studio, questo diritto fondamentale non è stato rispettato in 62 dei 196 Paesi sovrani (31,6% del totale) nel biennio 2018-2020. Sono 416 milioni i cristiani minacciati dalla persecuzione.
Nove nuovi Paesi
Alla presentazione, oltre al cardinale Mauro Piacenza e a Thomas Heine-Geldern, rispettivamente Presidente e Presidente esecutivo di ACS Internazionale, hanno partecipato due testimoni diretti della persecuzione religiosa: Asia Bibi, in collegamento dal Canada dove vive dopo la sua liberazione, e mons. Laurent B. Dabiré, vescovo di Dori e presidente della Conferenza episcopale del Burkina Faso e del Niger. Il Burkina, infatti, è uno dei nove Paesi entrati nella triste classifica delle 26 nazioni in cui si soffre la persecuzione.
Gli altri sono sei in Africa (Camerun, Ciad, Comore, Repubblica Democratica del Congo, Mali e Mozambico) e due in Asia (Malesia e Sri Lanka). “La causa principale è la progressiva radicalizzazione del continente africano, specie nelle aree sub-sahariana e orientale, dove la presenza di gruppi jihadisti è notevolmente aumentata” ha spiegato il direttore di Aiuto alla Chiesa che Soffre Italia Alessandro Monteduro.
Il dramma del Burkina Faso
E’ ben nota, purtroppo, la situazione del Pakistan, ricordata da Asia Bibi. Ma il dramma della persecuzione si sta estendendo a molti altri paesi. Tra questi il Burkina Faso: “Gli attacchi terroristici sono iniziati nel 2015. Sono diventati una vera valanga che si è abbattuta nel Sahel e poi è avanzata nel resto del paese” ha spiegato mons. Dabiré. “All’inizio era un fenomeno di aggressione di cui non si sapevano i motivi. Poi si è capito che erano gruppi provenienti da Mali, Niger, qualcuno dalla Libia… ci siamo ritrovati nella bufera, con distruzione di case, massacri di civili, distruzione di scuole e ogni simbolo dello Stato e della tolleranza”.
Un fenomeno che “si è manifestato come una negazione della libertà religiosa non solo per i cristiani. Anche per i musulmani che non condividono questo modo di agire: sono stati cacciati, convertiti all’Islam radicale o uccisi. Non c’è un vero piano di persecuzione ma i terroristi non vogliono il pacifico vivere insieme, il dialogo interreligioso che il Burkina conosceva. Nella loro avanzata – spiega il vescovo – è stato negato ai cristiani il diritto di vivere in pace, di professare la loro fede e non convertirsi ad altre fedi. E’ una rivoluzione rispetto alla convivenza pacifica precedente”.
Chiuse metà delle parrocchie
Nella diocesi di Dori su 6 parrocchie 3 sono chiuse: “Da 4 anni non possiamo andare oltre piccoli centri urbani, non possiamo esercitare la nostra libertà religiosa. Da un paio di mesi vediamo piccola normalizzazione, le uccisioni sono diminuite, ci sono meno sfollati e cerchiamo di portare aiuti materiali e spirituali. Se i fondamentalisti avranno la meglio sarà finita per le altre religioni e per la presenza della Chiesa ma non crediamo che questo avverrà”.
Un network islamista
Violazioni della libertà religiosa si sono verificate nel 42% delle nazioni africane. Burkina Faso e Mozambico rappresentano due casi eclatanti. «Questa radicalizzazione non si limita tuttavia all’Africa. Il Rapporto – sottolinea Monteduro – descrive il consolidamento di un network islamista transnazionale che si estende dal Mali al Mozambico, dalle Comore nell’Oceano Indiano alle Filippine nel Mar Cinese Meridionale, il cui scopo è creare un sedicente califfato transcontinentale».
La repressione usa la tecnologia
Il Rapporto evidenzia una nuova frontiera: l’abuso della tecnologia digitale, delle cyber networks, della sorveglianza di massa basata sull’intelligenza artificiale (AI) e sulla tecnologia del riconoscimento facciale. L’obiettivo è assicurare un maggiore controllo con finalità discriminatorie. Questo fenomeno è evidente soprattutto in Cina, dove il Partito Comunista sta reprimendo i gruppi religiosi. A questo scopo utilizza 626 milioni di telecamere di sorveglianza con tecnologia AI e i sensori degli smartphone. Anche i gruppi jihadisti stanno impiegando la tecnologia digitale per favorire la radicalizzazione e per il reclutamento di nuovi terroristi.
In 42 Paesi (21% del totale), abbandonare o cambiare la propria religione può determinare gravi conseguenze legali e/o sociali, con conseguenze che vanno dall’ostracismo familiare alla pena di morte. La ricerca di ACS denuncia anche l’incremento della violenza sessuale impiegata come arma contro le minoranze religiose. In particolare aumentano i crimini contro donne adulte e minorenni che vengono rapite, violentate e costrette a ripudiare la loro fede per abbracciare con la forza quella maggioritaria.
Il 67% circa della popolazione mondiale, circa 5,2 miliardi di persone, vive in nazioni in cui si verificano gravi violazioni della libertà religiosa. Fra di esse vi sono quelle più popolose: Cina, India e Pakistan.
Anche la persecuzione religiosa dei governi autoritari (il riferimento è soprattutto a Cina e Corea del Nord) si è intensificata. La promozione della supremazia etnica e religiosa in alcune nazioni asiatiche a maggioranza indù e buddista ha contribuito ad aumentare l’oppressione ai danni delle minoranze, riducendone spesso i componenti a livello di cittadini di seconda classe. L’India rappresenta il caso più eclatante, ma tali politiche vengono applicate anche in Pakistan, Nepal, Sri Lanka e Myanmar.
La “persecuzione educata”
In Occidente, poi, si registra una diffusione della “persecuzione educata”, come l’ha definita Papa Francesco per descrivere il conflitto fra le nuove tendenze culturali e i diritti individuali alla libertà di coscienza, conflitto a causa del quale la religione viene relegata nel ristretto perimetro dei luoghi di culto.
L’impatto della pandemia
Il Rapporto fa cenno anche al profondo impatto della pandemia da COVID-19 sul diritto alla libertà religiosa. A fronte di una tale emergenza, i governi hanno ritenuto necessario imporre misure straordinarie, applicando in alcuni casi limitazioni sproporzionate al culto religioso, specie se confrontate con quelle imposte ad altre attività secolari. In alcuni Paesi, come ad esempio il Pakistan e l’India, gli aiuti umanitari sono stati negati alle minoranze religiose. La pandemia è utilizzata specie nei social network quale pretesto per stigmatizzare alcuni gruppi religiosi accusati di aver diffuso o addirittura causato la pandemia.
Secondo Alfredo Mantovano, Presidente di ACS Italia, «a causa della pandemia ci siamo abituati a ragionare e a operare in termini di zone rosse, zone arancione, e così via, a seconda dell’intensità del contagio. Il Rapporto adopera da 22 anni la differente intensità dei colori per rendere visivamente chiara l’intensità della persecuzione religiosa nel mondo. Ma nel Rapporto ai colori non corrisponde la tipologia di esercizi commerciali che possono stare aperti o che devono chiudere».
«Le restrizioni – prosegue Mantovano – attengono all’esercizio di un diritto umano fondamentale, dai luoghi nei quali la condanna a morte colpisce chi mostra in pubblico i segni della propria fede, a quelli che sono teatro tragico dell’uso seriale e programmato della violenza sessuale nei confronti delle giovani donne colpevoli di appartenere a una comunità religiosa da cancellare», ha aggiunto il Presidente di ACS Italia.
L’Occidente indifferente
“Il Rapporto – ha concluso – è uno strumento per vincere l’indifferenza. Se infatti in molti luoghi la fede è repressa con la violenza, in altri, in cui si parla di diritti e spesso si elevano a rango di diritti quelli che sono solo desideri, c’è un’indifferenza incredibile che ignora la realtà di milioni di vittime” della repressione. Il riferimento all’Occidente secolarizzato è evidente.