Questo pomeriggio, alle ore 16.30, il Santo Padre Francesco ha incontrato le vittime della violenza nell’Est del Paese nel salone della Nunziatura Apostolica di Kinshasa.
Dopo il canto iniziale e le testimonianze di una vittima di Butembo-Beniu, di una vittima di Goma, di una vittima di Bunia e di una vittima di Bukavu e Uvira, il Papa ha pronunciato il Suo discorso.
Al termine, prima della benedizione finale, è stato recitato l’impegno a perdonare da parte delle vittime presenti.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre ha pronunciato nel corso dell’incontro:
Discorso del Santo Padre
Cari fratelli e sorelle!
Grazie. Grazie per il coraggio di queste testimonianze. Davanti alla violenza disumana che avete visto con i vostri occhi e provato sulla vostra pelle si resta scioccati. C’è solo da piangere, senza parole, rimanendo in silenzio. Bunia, Beni-Butembo, Goma, Masisi, Rutshuru, Bukavu, Uvira, luoghi che i media internazionali non menzionano quasi mai: qui e altrove tanti fratelli e sorelle nostri, figli della stessa umanità, vengono presi in ostaggio dall’arbitrarietà del più forte, da chi tiene in mano le armi più potenti, armi che continuano a circolare. Il mio cuore è oggi nell’Est di questo immenso Paese, che non avrà pace finché essa non sarà raggiunta lì, nella sua parte orientale.
A voi, cari abitanti dell’Est, voglio dire: vi sono vicino. Le vostre lacrime sono le mie lacrime, il vostro dolore è il mio dolore. A ogni famiglia in lutto o sfollata a causa di villaggi bruciati e altri crimini di guerra, ai sopravvissuti alle violenze sessuali, a ogni bambino e adulto ferito, dico: sono con voi, vorrei portarvi la carezza di Dio. Il suo sguardo tenero e compassionevole si posa su di voi. Mentre i violenti vi trattano come oggetti, il Padre che è nei cieli vede la vostra dignità e dice a ciascuno di voi: «Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e ti amo» (Is 43,4). Fratelli e sorelle, la Chiesa è e sarà sempre dalla vostra parte. Dio vi ama, non si è scordato di voi, ma pure gli uomini si ricordino di voi!
È in nome suo che, insieme alle vittime e a chi s’impegna per la pace, la giustizia e la fraternità, condanno le violenze armate, i massacri, gli stupri, la distruzione e l’occupazione di villaggi, il saccheggio di campi e di bestiame che continuano a essere perpetrati nella Repubblica Democratica del Congo. E pure il sanguinoso, illegale sfruttamento della ricchezza di questo Paese, così come i tentativi di frammentarlo per poterlo gestire. Riempie di sdegno sapere che l’insicurezza, la violenza e la guerra che tragicamente colpiscono tanta gente sono vergognosamente alimentate non solo da forze esterne, ma anche dall’interno, per trarne interessi e vantaggi. Mi rivolgo al Padre che è nei cieli, il quale ci vuole tutti fratelli e sorelle in terra: umilmente abbasso il capo e, con il dolore nel cuore, gli chiedo perdono per la violenza dell’uomo sull’uomo. Padre, abbi pietà di noi. Consola le vittime e coloro che soffrono. Converti i cuori di chi compie crudeli atrocità, che gettano infamia sull’umanità intera! E apri gli occhi a coloro che li chiudono o si girano dall’altra parte davanti a questi abomini.
Si tratta di conflitti che costringono milioni di persone a lasciare le proprie case, provocano gravissime violazioni dei diritti umani, disintegrano il tessuto socio-economico, causano ferite difficili da rimarginare. Sono lotte di parte in cui si intrecciano dinamiche etniche, territoriali e di gruppo; conflitti che hanno a che fare con la proprietà terriera, con l’assenza o la debolezza delle istituzioni, odi in cui si infiltra la blasfemia della violenza in nome di un falso dio. Ma è, soprattutto, la guerra scatenata da un’insaziabile avidità di materie prime e di denaro, che alimenta un’economia armata, la quale esige instabilità e corruzione. Che scandalo e che ipocrisia: la gente viene violentata e uccisa mentre gli affari che provocano violenze e morte continuano a prosperare!
Rivolgo un vibrante appello a tutte le persone, a tutte le entità, interne ed esterne, che tirano i fili della guerra nella Repubblica Democratica del Congo, depredandola, flagellandola e destabilizzandola. Vi arricchite attraverso lo sfruttamento illegale dei beni di questo Paese e il cruento sacrificio di vittime innocenti. Ascoltate il grido del loro sangue (cfr Gen 4,10), prestate orecchio alla voce di Dio, che vi chiama alla conversione, e a quella della vostra coscienza: fate tacere le armi, mettete fine alla guerra. Basta! Basta arricchirsi sulla pelle dei più deboli, basta arricchirsi con risorse e soldi sporchi di sangue!
Cari fratelli e sorelle, e noi che cosa possiamo fare? Da dove cominciare? Come agire per promuovere la pace? Vorrei umilmente proporvi di ripartire da due “no” e da due “sì”.
Anzitutto no alla violenza, sempre e comunque, senza “se” e senza “ma”. No alla violenza! Amare la propria gente non significa nutrire odio nei riguardi degli altri. Anzi, voler bene al proprio Paese significa rifiutare di lasciarsi coinvolgere da quanti incitano a ricorrere alla forza. È un tragico inganno: l’odio e la violenza non sono mai accettabili, mai giustificabili, mai tollerabili, a maggior ragione per chi è cristiano. L’odio genera solo altro odio e la violenza altra violenza. Un “no” chiaro e forte va poi detto a chi propaga in nome di Dio questa violenza, questo odio. Cari Congolesi, non lasciatevi sedurre da persone o gruppi che incitano alla violenza in suo nome. Dio è Dio della pace e non della guerra. Predicare l’odio è una bestemmia, e l’odio sempre corrode il cuore dell’uomo. Infatti, chi vive di violenza non vive mai bene: pensa di salvarsi la vita e invece viene inghiottito in un gorgo di male che, portandolo a combattere i fratelli e le sorelle con cui è cresciuto e ha vissuto per anni, lo uccide dentro.
Ma per dire davvero “no” alla violenza non basta evitare atti violenti; occorre estirpare le radici della violenza: penso all’avidità, all’invidia e, soprattutto, al rancore. Mentre mi inchino con rispetto davanti alla sofferenza patita da tanti, vorrei chiedere a tutti di comportarsi come ci avete suggerito voi, testimoni coraggiosi, che avete il coraggio di disarmare il cuore. Lo chiedo a tutti in nome di Gesù, che ha perdonato chi gli ha trafitto i polsi e i piedi con i chiodi, attaccandolo a una croce: vi prego di disarmare il cuore. Ciò non vuol dire smettere di indignarsi di fronte al male e non denunciarlo, questo è doveroso! Nemmeno significa impunità e condono delle atrocità, andando avanti come se nulla fosse. Quello che ci è chiesto, in nome della pace, in nome del Dio della pace, è smilitarizzare il cuore: togliere il veleno, rigettare l’astio, disinnescare l’avidità, cancellare il risentimento; dire “no” a tutto ciò sembra rendere deboli, ma in realtà rende liberi, perché dà pace. Sì, la pace nasce dai cuori, da cuori liberi dal rancore.
C’è poi un secondo “no” da dire: no alla rassegnazione. La pace chiede di combattere lo scoraggiamento, lo sconforto e la sfiducia che portano a credere che sia meglio diffidare di tutti, vivere separati e distanti piuttosto che tendersi la mano e camminare insieme. Ancora, in nome di Dio, rinnovo l’invito perché quanti vivono nella Repubblica Democratica del Congo non si lascino cadere le braccia, ma si impegnino per costruire un futuro migliore. Un avvenire di pace non pioverà dal cielo, ma potrà arrivare se si sgombreranno dai cuori il fatalismo rassegnato e la paura di mettersi in gioco con gli altri. Un futuro diverso verrà se sarà di tutti e non di qualcuno, se sarà per tutti e non contro qualcuno. Un avvenire nuovo verrà se l’altro, tutsi o hutu che sia, non sarà più un avversario o un nemico, ma un fratello e una sorella nel cui cuore bisogna credere che c’è, pur nascosto, lo stesso desiderio di pace. Anche nell’Est la pace è possibile! Crediamoci! Lavoriamoci, senza delegare il cambiamento!
Non si può costruire l’avvenire restando chiusi nei propri interessi particolari, ripiegati nei propri gruppi, nelle proprie etnie e nei propri clan. Un adagio swahili insegna: «jirani ni ndugu» [il vicino è un fratello]; quindi, fratello, sorella, tutti i tuoi vicini sono tuoi fratelli, siano essi burundesi, ugandesi o ruandesi. Siamo tutti fratelli, perché figli dello stesso Padre: così ci insegna la fede cristiana, professata da gran parte della popolazione. Allora, si alzi lo sguardo al Cielo e non si rimanga prigionieri del timore: il male che ciascuno ha sofferto ha bisogno di essere convertito in bene per tutti; lo sconforto che paralizza ceda il passo a un rinnovato ardore, a una lotta indomita per la pace, a coraggiosi propositi di fraternità, alla bellezza di gridare insieme mai più: mai più violenza, mai più rancore, mai più rassegnazione!
Ed eccoci finalmente ai due “sì” per la pace. Anzitutto, sì alla riconciliazione. Amici, è meraviglioso quanto state per fare. Volete impegnarvi a perdonarvi a vicenda e a ripudiare le guerre e i conflitti per risolvere le distanze e le differenze. E volete farlo pregando insieme, tra poco, stretti attorno all’albero della Croce, sotto il quale, con grande coraggio, desiderate deporre i segni delle violenze che avete visto e subito: uniformi, machete, martelli, asce, coltelli… Anche la croce era uno strumento di dolore e di morte, il più terribile ai tempi di Gesù, ma, attraversato dal suo amore, è diventato strumento universale di riconciliazione, albero di vita.
Vorrei dirvi: siate anche voi alberi di vita. Fate come gli alberi, che assorbono inquinamento e restituiscono ossigeno. O, come dice un proverbio: “Nella vita fai come la palma: riceve sassi, restituisce datteri”. Questa è profezia cristiana: rispondere al male con il bene, all’odio con l’amore, alla divisione con la riconciliazione. La fede porta con sé una nuova idea di giustizia, che non si accontenta di punire e rinuncia a vendicare, ma vuole riconciliare, disinnescare nuovi conflitti, estinguere l’astio, perdonare. E tutto questo è più potente del male. Sapete perché? Perché trasforma la realtà da dentro invece che distruggerla da fuori. Solo così si sconfigge il male, proprio come ha fatto Gesù sull’albero della croce, facendosene carico e trasformandolo con il suo amore. Così il dolore si è tramutato in speranza. Amici, solo il perdono apre le porte al domani, perché apre le porte a una giustizia nuova, senza dimenticare, scardina il circolo vizioso della vendetta. Riconciliarsi è generare il domani: è credere nel futuro anziché restare ancorati al passato; è scommettere sulla pace anziché rassegnarsi alla guerra; è evadere dalla prigione delle proprie ragioni per aprirsi agli altri e assaporare insieme la libertà.
Poi l’ultimo “sì”, decisivo: sì alla speranza. Se può rappresentare la riconciliazione come un albero, come una palma che dà frutto, la speranza è l’acqua che la rende florida. Questa speranza ha una sorgente e questa sorgente ha un nome, che voglio proclamare qui insieme a voi: Gesù! Gesù: con Lui il male non ha più l’ultima parola sulla vita; con Lui, che ha fatto di un sepolcro, capolinea del tragitto umano, l’inizio di una storia nuova, si aprono sempre nuove possibilità. Con Lui ogni tomba può trasformarsi in una culla, ogni calvario in un giardino pasquale. Con Gesù nasce e rinasce la speranza: per chi ha subito il male e persino per chi lo ha commesso. Fratelli e sorelle dell’Est del Paese, questa speranza è per voi, ne avete diritto. Ma è anche un diritto da conquistare. Come? Seminandola ogni giorno, con pazienza. Torno all’immagine della palma. Un proverbio dice: «Quando mangi la noce, vedi la palma, ma chi l’ha piantata è tornato alla terra molto tempo fa». In altre parole, per conquistare i frutti sperati, bisogna lavorare con lo stesso spirito dei piantatori di palme, pensando alle generazioni future e non ai risultati immediati. Seminare il bene fa bene: libera dalla logica angusta del guadagno personale e regala a ogni giorno il suo perché: porta nella vita il respiro della gratuità e ci rende più simili a Dio, seminatore paziente che sparge speranza senza stancarsi mai.
Oggi ringrazio e benedico tutti i seminatori di pace che operano nel Paese: le persone e le istituzioni che si prodigano nell’aiuto e nella lotta per le vittime della violenza, dello sfruttamento e dei disastri naturali, le donne e gli uomini che vengono qui animati dal desiderio di promuovere la dignità della gente. Alcuni hanno perso la vita mentre servivano la pace, come l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo, assassinati due anni fa nell’Est del Paese. Erano seminatori di speranza e il loro sacrificio non andrà perduto.
Fratelli, sorelle, figli e figlie dell’Ituri, del Nord e del Sud Kivu, vi sono vicino, vi abbraccio e benedico tutti voi. Benedico ogni bambino, adulto, anziano, ogni persona ferita dalla violenza nella Repubblica Democratica del Congo, in particolare ogni donna e ogni madre. E prego perché la donna, ogni donna, sia rispettata, protetta, valorizzata: commettere violenza nei confronti di una donna e di una madre è farla a Dio stesso, che da una donna, da una madre, ha preso la condizione umana. Gesù, nostro fratello, Dio della riconciliazione che ha piantato l’albero di vita della croce nel cuore delle tenebre del peccato e della sofferenza, Gesù, Dio della speranza che crede in voi, nel vostro Paese e nel vostro futuro, benedica tutti voi e vi consoli; riversi la sua pace nei vostri cuori, nelle vostre famiglie e sull’intera Repubblica Democratica del Congo. Grazie!