Questa mattina, nell’Aula della Benedizione, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza i Membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede per la presentazione degli auguri per il nuovo anno.
Dopo le parole introduttive del Decano del Corpo Diplomatico, S.E. il Sig. Georges Poulides, Ambasciatore di Cipro presso la Santa Sede, il Papa ha pronunciato il discorso che riportiamo di seguito:
Eminenza, Eccellenze, Signore e Signori,
Vi ringrazio per la vostra presenza al nostro consueto appuntamento, che quest’anno desidera essere un’invocazione di pace in un mondo che vede crescere divisioni e guerre.
Sono particolarmente grato al Decano del Corpo Diplomatico, Sua Eccellenza il Signor Georges Poulides, per i voti augurali che mi ha rivolto a nome di tutti voi. Il mio saluto si estende ad ognuno di voi, alle vostre famiglie, ai collaboratori e ai popoli e i governi dei Paesi che rappresentate. A voi tutti e alle vostre Autorità desidero esprimere gratitudine anche per i messaggi di cordoglio inviati in occasione della morte del Papa emerito Benedetto XVI e per la vicinanza manifestata durante le esequie.
Abbiamo appena concluso il tempo di Natale, in cui i cristiani fanno memoria del mistero della nascita del Figlio di Dio. Il profeta Isaia l’aveva preannunciata con queste parole: «Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace» (Is 9,5).
La vostra presenza afferma il valore della pace e della fraternità umana che il dialogo contribuisce a costruire. D’altronde, il compito della diplomazia è proprio quello di appianare i contrasti per favorire un clima di reciproca collaborazione e fiducia per il soddisfacimento di comuni bisogni. Si può dire che essa è un esercizio di umiltà perché richiede di sacrificare un po’ di amor proprio per entrare in rapporto con l’altro, per comprenderne le ragioni e i punti di vista, contrapponendosi così all’orgoglio e alla superbia umana, causa di ogni volontà belligerante.
Sono altresì riconoscente per l’attenzione che i vostri Paesi rivolgono alla Santa Sede, marcata, tra l’altro, nel corso dell’ultimo anno, dalla scelta della Svizzera, della Repubblica del Congo, del Mozambico e dell’Azerbaigian di nominare Ambasciatori residenti a Roma, come pure dalla sottoscrizione di nuovi accordi bilaterali con la Repubblica Democratica di São Tomé e Principe e con la Repubblica del Kazakhstan.
In questa sede, mi preme ricordare pure che, nel contesto di un dialogo rispettoso e costruttivo, la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese hanno concordato di prorogare per un altro biennio la validità dell’Accordo Provvisorio sulla nomina dei Vescovi, stipulato a Pechino nel 2018. Auspico che tale rapporto collaborativo possa svilupparsi a favore della vita della Chiesa cattolica e del bene del Popolo cinese.
In pari tempo, vi rinnovo l’assicurazione della piena collaborazione della Segreteria di Stato e dei Dicasteri della Curia Romana, la quale, con la promulgazione della nuova Costituzione apostolica Prædicate Evangelium, è stata riformata in alcune strutture per meglio adempiere «con spirito evangelico la propria funzione, operando al bene e al servizio della comunione, dell’unità e dell’edificazione della Chiesa universale ed attendendo alle istanze del mondo nel quale la Chiesa è chiamata a compiere la sua missione»[1].
Cari Ambasciatori,
Quest’anno ricorre il sessantesimo anniversario dell’Enciclica Pacem in terris di S. Giovanni XXIII, pubblicata poco meno di due mesi prima della sua morte[2].
Negli occhi del “Papa buono” era ancora vivo il pericolo di una guerra nucleare, provocato nell’ottobre 1962 dalla cosiddetta crisi dei missili di Cuba. L’umanità era a un passo dal proprio annientamento, se non si fosse riusciti a far prevalere il dialogo, consapevoli degli effetti distruttivi delle armi atomiche.
Purtroppo, ancora oggi la minaccia nucleare viene evocata, gettando il mondo nella paura e nell’angoscia. Non posso che ribadire in questa sede che il possesso di armi atomiche è immorale poiché – come osservava Giovanni XXIII – «se è difficile persuadersi che vi siano persone capaci di assumersi la responsabilità delle distruzioni e dei dolori che una guerra causerebbe, non è escluso che un fatto imprevedibile ed incontrollabile possa far scoccare la scintilla che metta in moto l’apparato bellico» [3]. Sotto la minaccia di armi nucleari siamo tutti sempre perdenti, tutti!
Da questo punto di vista, particolare preoccupazione desta lo stallo dei negoziati circa il riavvio del Piano d’azione congiunto globale, meglio noto come Accordo sul nucleare iraniano. Auspico che si possa arrivare al più presto ad una soluzione concreta per garantire un avvenire più sicuro.
Oggi è in corso la terza guerra mondiale di un mondo globalizzato, dove i conflitti interessano direttamente solo alcune aree del pianeta, ma nella sostanza coinvolgono tutti. L’esempio più vicino e recente è proprio la guerra in Ucraina, con il suo strascico di morte e distruzione; con gli attacchi alle infrastrutture civili che portano le persone a perdere la vita non solo a causa degli ordigni e delle violenze, ma anche di fame e di freddo. Al riguardo, la Costituzione conciliare Gaudium et spes, afferma che «ogni atto di guerra, che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e va condannato con fermezza e senza esitazione» (n. 80). Non dobbiamo dimenticare poi che la guerra colpisce particolarmente le persone più fragili – i bambini, gli anziani, i disabili – e lacera indelebilmente le famiglie. Non posso che rinnovare quest’oggi il mio appello a far cessare immediatamente questo conflitto insensato, i cui effetti interessano intere regioni, anche fuori dall’Europa a causa delle ripercussioni che esso ha in campo energetico e nell’ambito della produzione alimentare, soprattutto in Africa ed in Medio Oriente.
La terza guerra mondiale a pezzi che stiamo vivendo ci porta a considerare altri teatri di tensioni e conflitti. Anche quest’anno, con tanto dolore, dobbiamo guardare alla Siria come a una terra martoriata. La rinascita di quel Paese deve passare attraverso le necessarie riforme, anche costituzionali, nel tentativo di dare speranza al popolo siriano, afflitto da una povertà sempre crescente, evitando che le sanzioni internazionali imposte abbiano riflessi sulla vita quotidiana di una popolazione che ha già sofferto tanto.
La Santa Sede segue anche con preoccupazione l’aumento della violenza tra palestinesi e israeliani, con la conseguenza drammatica di molte vittime e di una totale sfiducia reciproca. Particolarmente colpita è Gerusalemme, città santa per ebrei, cristiani e musulmani. La vocazione iscritta nel suo nome è di essere Città della Pace, ma purtroppo si trova ad essere teatro di scontri. Confido che essa possa ritrovare tale vocazione ad essere luogo e simbolo di incontro e di coesistenza pacifica, e che l’accesso e la libertà di culto nei Luoghi Santi continui ad essere garantito e rispettato secondo lo status quo. Allo stesso tempo, auspico che le autorità dello Stato d’Israele e quelle dello Stato di Palestina possano ritrovare il coraggio e la determinazione nel dialogare direttamente al fine di implementare la soluzione dei due Stati in tutti i suoi aspetti, in conformità con il diritto internazionale e con tutte le pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite.
Come sapete, alla fine del mese, potrò finalmente recarmi pellegrino di pace nella Repubblica Democratica del Congo, con l’auspicio che cessino le violenze nell’est del Paese e prevalga la via del dialogo e la volontà di lavorare per la sicurezza e il bene comune. Il pellegrinaggio proseguirà in Sud Sudan, dove sarò accompagnato dall’Arcivescovo di Canterbury e dal Moderatore Generale della Chiesa Presbiteriana di Scozia. Insieme desideriamo unirci al grido di pace della popolazione e contribuire al processo di riconciliazione nazionale.
Non dobbiamo neppure dimenticare altre situazioni in cui continuano a pesare le conseguenze di conflitti non ancora risolti. Penso in particolare alla situazione nel Caucaso meridionale. Esorto le parti a rispettare il cessate il fuoco, ribadendo che la liberazione dei prigionieri militari e civili sarebbe un passo importante verso un desiderato accordo di pace.
Penso, altresì, allo Yemen, dove regge la tregua raggiunta nell’ottobre scorso ma tanti civili continuano a morire a causa delle mine, e all’Etiopia, dove auspico che continui il processo di pacificazione e si rafforzi l’impegno della Comunità internazionale per affrontare la crisi umanitaria che interessa il Paese.
Seguo con apprensione pure la situazione in Africa Occidentale, sempre più afflitta dalle violenze del terrorismo. Penso, in particolare, ai drammi che vivono le popolazioni del Burkina Faso, del Mali e della Nigeria e auspico che i processi di transizione in corso in Sudan, Mali, Ciad, Guinea e Burkina Faso si svolgano nel rispetto delle aspirazioni legittime delle popolazioni coinvolte.
Seguo parimenti con particolare attenzione la situazione del Myanmar, che ormai da due anni sperimenta violenza, dolore e morte. Invito la Comunità internazionale ad adoperarsi per concretizzare i processi di riconciliazione ed esorto tutte le parti coinvolte a riprendere il cammino del dialogo per ridonare speranza alla popolazione di quell’amata terra.
Penso, infine, alla penisola coreana, per la quale auspico che non vengano meno la buona volontà e l’impegno per la concordia, al fine di costruire la tanto desiderata pace e la prosperità per l’intero popolo coreano.
Tutti i conflitti pongono comunque in rilievo le conseguenze letali di un continuo ricorso alla produzione di nuovi e sempre più sofisticati armamenti, talvolta giustificata «adducendo il motivo che se una pace oggi è possibile, non può essere che la pace fondata sull’equilibrio delle forze»[4]. Occorre scardinare tale logica e procedere sulla via di un disarmo integrale, poiché nessuna pace è possibile laddove dilagano strumenti di morte.
Cari Ambasciatori,
In un tempo così conflittuale, non possiamo eludere la domanda su come si possa ritessere i fili della pace. Da dove ripartire?
Per abbozzare una risposta, vorrei riprendere con voi alcuni elementi della Pacem in terris, un testo estremamente attuale pur essendo mutato gran parte del contesto internazionale. Per San Giovanni XXIII, la pace è possibile alla luce di quattro beni fondamentali: la verità, la giustizia, la solidarietà e la libertà. Sono questi i capisaldi che regolano sia i rapporti fra i singoli esseri umani che quelli fra le comunità politiche[5].
Tali dimensioni si intrecciano all’interno della premessa fondamentale che «ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili» [6].
Pace nella verità
Costruire la pace nella verità, significa anzitutto rispettare la persona umana, con il suo «diritto all’esistenza e all’integrità fisica»[7], alla quale va garantita la «libertà nella ricerca del vero, nella manifestazione del pensiero e nella sua diffusione»[8]. Ciò esige che «i poteri pubblici contribuiscano positivamente alla creazione di un ambiente umano nel quale a tutti i membri del corpo sociale sia reso possibile e facilitato l’effettivo esercizio degli accennati diritti, come pure l’adempimento dei rispettivi doveri»[9].
Nonostante gli impegni assunti da tutti gli Stati di rispettare i diritti umani e le libertà fondamentali di ogni persona, ancor oggi, in molti Paesi, le donne sono considerate come cittadini di seconda classe. Sono oggetto di violenze e di abusi e viene loro negata la possibilità di studiare, di lavorare, di esprimere i propri talenti, l’accesso alle cure sanitarie e persino al cibo. Invece, ove i diritti umani sono riconosciuti pienamente per tutti, le donne possono offrire il proprio contributo insostituibile alla vita sociale ed essere prime alleate della pace.
La pace esige anzitutto che si difenda la vita, un bene che oggi è messo a repentaglio non solo da conflitti, fame e malattie, ma fin troppo spesso addirittura dal grembo materno, affermando un presunto “diritto all’aborto”. Nessuno può vantare però diritti sulla vita di un altro essere umano, specialmente se è inerme e dunque privo di ogni possibilità di difesa. Faccio, dunque, appello alle coscienze degli uomini e delle donne di buona volontà, particolarmente di quanti hanno responsabilità politiche, affinché si adoperino per tutelare i diritti dei più deboli e venga debellata la cultura dello scarto, che interessa purtroppo anche i malati, i disabili e gli anziani. Vi è una precipua responsabilità degli Stati di garantire l’assistenza dei cittadini in ogni fase della vita umana, fino alla morte naturale, facendo in modo che ciascuno si senta accompagnato e curato anche nei momenti più delicati della propria esistenza.
Il diritto alla vita è minacciato anche laddove si continua a praticare la pena di morte, come sta accadendo in questi giorni in Iran, in seguito alle recenti manifestazioni, che chiedono maggiore rispetto per la dignità delle donne. La pena di morte non può essere utilizzata per una presunta giustizia di Stato, poiché essa non costituisce un deterrente, né offre giustizia alle vittime, ma alimenta solamente la sete di vendetta. Faccio, perciò, appello perché la pena di morte, che è sempre inammissibile poiché attenta all’inviolabilità e alla dignità della persona, sia abolita nelle legislazioni di tutti i Paesi del mondo. Non possiamo dimenticare che fino all’ultimo momento, una persona può convertirsi e può cambiare.
Purtroppo, appare emergere sempre più una “paura” della vita, che si traduce in molti luoghi nel timore dell’avvenire e nella difficoltà a formare una famiglia e mettere al mondo dei figli. In alcuni contesti, penso ad esempio all’Italia, è in atto un pericoloso calo della natalità, un vero e proprio inverno demografico, che mette in pericolo il futuro stesso della società. Al caro popolo italiano, desidero rinnovare il mio incoraggiamento ad affrontare con tenacia e speranza le sfide del tempo presente, forte delle proprie radici religiose e culturali.
Le paure trovano alimento nell’ignoranza e nel pregiudizio per degenerare facilmente in conflitti. L’educazione è il loro antidoto. La Santa Sede promuove una visione integrale dell’educazione, in cui «il culto dei valori religiosi e l’affinamento della coscienza morale procedano di pari passo con la sempre più ricca assimilazione di elementi scientifico-tecnici»[10]. Educare esige sempre il rispetto integrale della persona e della sua fisionomia naturale, evitando di imporre una nuova e confusa visione dell’essere umano. Ciò implica integrare i percorsi di crescita umana, spirituale, intellettuale e professionale, permettendo alla persona di affrancarsi da molteplici forme di schiavitù e di affermarsi nella società in modo libero e responsabile. In tal senso, è inaccettabile che parte della popolazione possa essere esclusa dall’educazione, come sta accadendo alle donne afgane.
L’educazione è in balìa di una crisi acuita dalle devastanti conseguenze della pandemia e dal preoccupante scenario geopolitico. In tal senso, il Vertice sulla trasformazione dell’educazione, convocato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite e svoltosi lo scorso settembre a New York, ha rappresentato per i Governi un’opportunità unica per intraprendere politiche coraggiose, volte ad affrontare la “catastrofe educativa” in atto e a realizzare scelte concrete per raggiungere un’istruzione di qualità per tutti entro il 2030. Gli Stati abbiano il coraggio di invertire l’imbarazzante e asimmetrico rapporto tra la spesa pubblica riservata all’educazione e i fondi destinati agli armamenti!
La pace esige anche che sia riconosciuta universalmente la libertà religiosa. È preoccupante che ci siano persone che vengono perseguitate solo perché professano pubblicamente la loro fede e sono molti i Paesi in cui la libertà religiosa è limitata. Circa un terzo della popolazione mondiale vive in questa condizione. Insieme alla mancanza di libertà religiosa, vi è anche la persecuzione per motivi religiosi. Non posso non menzionare, come alcune statistiche dimostrano, che un cristiano ogni sette viene perseguitato. Al riguardo, esprimo l’auspicio che il nuovo Inviato Speciale dell’Unione Europea per la promozione della libertà di religione o di credo al di fuori dell’Unione Europea, possa disporre delle risorse e dei mezzi necessari per svolgere adeguatamente il proprio mandato.
Nello stesso tempo, è bene non dimenticare che la violenza e le discriminazioni contro i cristiani aumentano anche in Paesi dove questi non sono una minoranza. La libertà religiosa è messa in pericolo anche laddove i credenti vedono ridotta la possibilità di esprimere le proprie convinzioni nell’ambito della vita sociale, in nome di un malinteso concetto di inclusione. La libertà religiosa, che non può ridursi alla mera libertà di culto, è uno dei requisiti minimi necessari per vivere in modo dignitoso e i governi hanno il dovere di proteggerla e di garantire a ogni persona, compatibilmente con il bene comune, l’opportunità di agire secondo la propria coscienza anche nell’ambito della vita pubblica e nell’esercizio della propria professione.
La religione è un’opportunità effettiva di dialogo e d’incontro fra popoli e culture diverse, come testimonia la decisione del Parlamento di Timor-Leste che ha approvato all’unanimità il Documento sulla Fratellanza Umana che ho firmato con il Grande Imam di Al-Azhar nel 2019, includendolo nei programmi delle istituzioni educative e culturali nazionali, e come ho potuto sperimentare personalmente nel viaggio che ho compiuto in Kazakhstan, nel settembre scorso, in occasione del VII Incontro dei Leader religiosi mondiali, con i quali ho condiviso alcune preoccupazioni del nostro tempo e toccato con mano come le religioni «non [siano] problemi, ma parte della soluzione per una convivenza più armoniosa»[11]. Parimenti significativa è stata anche la visita in Bahrein, dove si è potuto compiere un nuovo passo nel cammino tra credenti cristiani e musulmani.
Spesso si vogliono attribuire alla religione i vari conflitti che accompagnano l’umanità e talvolta non mancano effettivamente i tentativi deplorevoli di fare un uso strumentale della religione per finalità meramente politiche. Tuttavia, ciò è contrario alla prospettiva cristiana, che mette a nudo la radice di ogni conflitto che è lo squilibrio del cuore umano: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male» (Mc 7,21), come ci ricorda il Vangelo. Il cristianesimo sprona alla pace, poiché sprona alla conversione e all’esercizio della virtù.
Pace nella giustizia
Costruire la pace esige che sia perseguita la giustizia. La crisi del 1962 è rientrata per il contributo di uomini di buona volontà che hanno saputo trovare soluzioni adeguate per evitare che la tensione politica degenerasse in una vera e propria guerra. Ciò è stato possibile anche grazie alla convinzione che le contese potessero risolversi nell’ambito del diritto internazionale e tramite quelle organizzazioni, principalmente le Nazioni Unite, sorte dopo la Seconda Guerra Mondiale, che hanno sviluppato la diplomazia multilaterale. San Giovanni XXIII ricorda che «le Nazioni Unite si proposero come fine essenziale di mantenere e consolidare la pace fra i popoli, sviluppando fra essi relazioni amichevoli, fondate sui principi della uguaglianza, del vicendevole rispetto, della multiforme cooperazione in tutti i settori della convivenza»[12].
L’attuale conflitto in Ucraina ha reso più evidente la crisi che da tempo interessa il sistema multilaterale, il quale abbisogna di un ripensamento profondo per poter rispondere adeguatamente alle sfide del nostro tempo. Ciò esige una riforma degli organi che ne consentono il funzionamento, affinché siano realmente rappresentativi delle necessità e delle sensibilità di tutti i popoli, evitando meccanismi che diano ad alcuni maggior peso a scapito di altri. Non si tratta dunque di costruire blocchi di alleanze, ma di creare opportunità perché tutti possano dialogare.
Tanto bene si può fare insieme, basti pensare alle lodevoli iniziative destinate a ridurre la povertà, ad aiutare i migranti, a contrastare i cambiamenti climatici, a favorire il disarmo nucleare e ad offrire aiuto umanitario. Tuttavia, in tempi recenti, i vari fori internazionali sono stati contraddistinti da crescenti polarizzazioni e da tentativi di imporre un pensiero unico, che impedisce il dialogo e marginalizza coloro che la pensano diversamente. C’è il rischio di una deriva, che assume sempre più il volto di un totalitarismo ideologico, che promuove l’intolleranza nei confronti di chi non aderisce a pretese posizioni di “progresso”, le quali in realtà sembrano portare piuttosto a un generale regresso dell’umanità, con violazione della libertà di pensiero e di coscienza.
Inoltre, risorse sempre maggiori sono state impiegate per imporre, specialmente nei confronti dei Paesi più poveri, forme di colonizzazione ideologica, creando peraltro un nesso diretto fra l’elargizione di aiuti economici e l’accettazione di tali ideologie. Ciò ha affaticato il dibattito interno alle Organizzazioni internazionali, precludendo scambi fruttuosi e aprendo spesso alla tentazione di affrontare le questioni in modo autonomo e, conseguentemente, sulla base di rapporti di forza.
D’altronde, durante il mio viaggio in Canada, nel luglio scorso, ho potuto toccare con mano le conseguenze della colonizzazione, incontrando in special modo le popolazioni indigene, che hanno sofferto per le politiche di assimilazione del passato. Laddove si cerca di imporre ad altre culture forme di pensiero che non appartengono loro si apre la strada ad aspri confronti e talvolta anche alla violenza.
È necessario tornare al dialogo, all’ascolto reciproco e al negoziato, favorendo responsabilità condivise e la cooperazione nella ricerca del bene comune, nel segno di quella solidarietà che «deriva dal saperci responsabili della fragilità degli altri cercando un destino comune»[13]. Le preclusioni e i veti reciproci non portano che ad alimentare ulteriori divisioni.
Pace nella solidarietà
Nell’annuale Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, ho posto in evidenza come la pandemia di Covid-19 lasci in eredità «la consapevolezza che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri»[14]. I sentieri della pace sono sentieri di solidarietà, poiché nessuno può salvarsi da solo. Viviamo in un mondo talmente interconnesso che l’agire di ciascuno finisce per avere ripercussioni su tutti.
In questa sede, vorrei sottolineare tre ambiti, nei quali emerge con particolare forza l’interconnessione che lega oggi l’umanità e per i quali è particolarmente urgente una maggiore solidarietà.
Il primo è quello delle migrazioni, che interessa intere regioni della Terra. Molte volte si tratta di persone che fuggono da guerra e persecuzione, affrontando pericoli immensi. D’altra parte, «ogni essere umano ha il diritto alla libertà di movimento, […] di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi in esse»[15] e deve avere la possibilità di fare ritorno alla propria terra d’origine.
La migrazione è una questione per la quale “procedere in ordine sparso” non è ammissibile. Per comprenderlo basta guardare al Mediterraneo, divenuto un grande cimitero. Quelle vite spezzate sono l’emblema del naufragio della nostra civiltà, come ho avuto modo di richiamare nel corso del mio viaggio a Malta nella primavera scorsa. In Europa, è urgente rafforzare la cornice normativa, attraverso l’approvazione del Nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo, perché si possano implementare adeguate politiche per accogliere, accompagnare, promuovere e integrare i migranti. Nello stesso tempo, la solidarietà esige che le doverose operazioni di assistenza e cura dei naufraghi non gravino interamente sulle popolazioni dei principali punti d’approdo.
Il secondo ambito riguarda l’economia e il lavoro. Le crisi succedutesi negli ultimi anni hanno posto in evidenza i limiti di un sistema economico teso più a creare profitto per pochi che opportunità di benessere per molti; un’economia maggiormente tesa al denaro che non alla produzione di beni utili. Ciò ha generato imprese più fragili e mercati del lavoro altamente iniqui. Occorre ridare dignità all’impresa e al lavoro, combattendo ogni forma di sfruttamento che finisce per trattare i lavoratori alla stregua di una merce, poiché «senza lavoro degno e ben remunerato i giovani non diventano veramente adulti, [e] le diseguaglianze aumentano»[16].
Il terzo ambito è la cura della nostra casa comune. Abbiamo costantemente davanti a noi gli effetti dei cambiamenti climatici e le gravi conseguenze che essi hanno sulla vita di intere popolazioni, sia per le devastazioni che talvolta producono, come accaduto in Pakistan nelle aree colpite dalle inondazioni, dove i focolai di malattie trasmesse dall’acqua stagnante continuano ad aumentare; sia in vaste aree dell’Oceano Pacifico, dove il riscaldamento globale provoca danni innumerevoli alla pesca, fondamento della vita quotidiana di intere popolazioni; sia in Somalia e nell’intero Corno d’Africa, dove la siccità sta causando una grave carestia; sia negli ultimi giorni negli Stati Uniti, dove le improvvise e intense gelate hanno provocato diversi morti.
Nell’estate passata, la Santa Sede ha deciso di accedere alla Convenzione-Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, intendendo dare il proprio sostegno morale agli sforzi di tutti gli Stati per cooperare, in conformità con le loro responsabilità e rispettive capacità, a una risposta efficace e adeguata alle sfide poste dal cambiamento climatico. Si spera che i passi compiuti alla COP27, con l’adozione dello Sharm el-Sheikh Implementation Plan, anche se limitati, possano accrescere la presa di coscienza di tutta l’umanità verso una questione urgente che non può più essere elusa. Obiettivi incoraggianti sono stati, invece, concordati durante la recente Conferenza delle Nazioni Unite sulla Biodiversità (COP15), svoltasi a Montreal il mese scorso.
Pace nella libertà
Infine, costruire la pace esige che non via sia posto per «la lesione della libertà, dell’integrità e della sicurezza di altre nazioni, qualunque sia la loro estensione territoriale o la loro capacità di difesa»[17]. Ciò è possibile se in ogni singola comunità non prevale la cultura della sopraffazione e dell’aggressione, che porta a guardare al prossimo come ad un nemico da combattere piuttosto che ad un fratello da accogliere ed abbracciare[18].
Desta preoccupazione l’affievolirsi, in molte parti del mondo, della democrazia e della possibilità di libertà che essa consente, pur con tutti i limiti di un sistema umano. Ne fanno tante volte le spese le donne o le minoranze etniche, nonché gli equilibri di intere società in cui il disagio sfocia in tensioni sociali e persino in scontri armati.
In molte aree, un segno di affievolimento della democrazia è dato dalle crescenti polarizzazioni politiche e sociali, che non aiutano a risolvere i problemi urgenti dei cittadini. Penso alle varie crisi politiche in diversi Paesi del continente americano, con il loro carico di tensioni e forme di violenza che acuiscono i conflitti sociali. Penso specialmente a quanto accaduto recentemente in Perù e, in queste ultime ore, in Brasile, e alla preoccupante situazione ad Haiti, dove si stanno finalmente compiendo alcuni passi per affrontare la crisi politica in atto da tempo. Occorre sempre superare le logiche di parte e adoperarsi per l’edificazione del bene comune.
Seguo, poi, con attenzione la situazione in Libano, dove si è ancora in attesa dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica e auspico che tutti gli attori politici si impegnino per consentire al Paese di riprendersi dalla drammatica situazione economica e sociale in cui versa.
Eccellenze, Signore e Signori,
sarebbe bello che una volta ci potessimo ritrovare solamente per ringraziare il Signore Onnipotente per i benefici che sempre ci concede, senza essere costretti ad elencare le situazioni drammatiche che affliggono l’umanità. Come diceva Giovanni XXIII: «È lecito tuttavia sperare che gli uomini, incontrandosi e negoziando, abbiano a scoprire meglio i vincoli che li legano, provenienti dalla loro comune umanità e abbiano pure a scoprire che una fra le più profonde esigenze della loro comune umanità è che tra essi e tra i rispettivi popoli regni non il timore, ma l’amore: il quale tende ad esprimersi nella collaborazione leale, multiforme, apportatrice di molti beni»[19]. Con questi auspici, rinnovo a voi e ai Paesi che rappresentate i più fervidi auguri per il nuovo anno.
Grazie!
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[1] Cost. Ap. Prædicate Evangelium (19 marzo 2022), art. 1.
[2] L’11 aprile 1963. Cfr AAS 55 (1963), 257-304.
[3] Pacem in terris, 60.
[4] Pacem in terris, 59.
[5] Cfr ibid., 47.
[6] Ibid., 5.
[7] Ibid., 6.
[8] Ibid., 7.
[9] Ibid, 38.
[10] Ibid., 80.
[11] Discorso alla Sessione Plenaria del VII Congress of Leaders of World and Traditional Religions, Nur-Sultan (ora Astana), 14 settembre 2022.
[12] Pacem in terris, 75.
[13] Lett. Enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 115.
[14] Messaggio per la LVI Giornata Mondiale della Pace (8 dicembre 2022), 3.
[15] Pacem in terris, 12.
[16] Discorso ai partecipanti all’evento “Economy of Francesco”, Assisi, 24 settembre 2022.
[17] Pacem in terris, 66. Cfr Pio XII, Radiomessaggio natalizio, 24 dicembre 1941.
[18] Cfr Discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 22 marzo 2013.
[19] Pacem in terris, 67.