27 Marzo, 2025

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La dinamica della persona nella formazione dell’ethos

Integrazione delle dinamiche umane nella configurazione del carattere morale

La dinamica della persona nella formazione dell’ethos

Nel suo libro classico, Aranguren svolge un’analisi etimologica estremamente interessante – a mio parere – del termine che gli dà il nome, “etica”. Come spesso accade, etimologicamente parlando il termine originale ha un significato molto più ricco di quello associato al termine attuale in cui è stato tradotto. Il termine greco “ethos” ha a che fare con il “carattere”, con il “modo di essere”, con il “modo di vivere”, evidenziando la dimensione che si tratta di qualcosa che si acquisisce o si configura nel corso della propria esistenza attraverso le proprie azioni; Ma, d’altra parte, ha anche a che fare con l’essere l’origine di quegli atti. In un certo senso, il carattere è una conseguenza delle nostre azioni, e quindi plasma le nostre abitudini; Ma non completamente, perché il nostro carattere corregge anche queste azioni e abitudini. Possiamo quindi osservare una circolarità ethos-abitudini-atti, tale che ognuno di essi fornisce un feedback (positivo o negativo) agli altri due.

E il carattere può essere visto da questo doppio significato: come fonte delle nostre azioni, o come risultato di esse, distinzione che all’epoca si rifletteva nell’uso di un termine specifico per ogni caso: rispettivamente êthos ed éthos. La differenza sembra sottile, ma è sostanziale e ha importanti ripercussioni sull’esistenza del soggetto. Perché? Nel primo caso si tratta della configurazione di un personaggio in cui è coinvolta tutta la persona; Vale a dire che si tratta della configurazione del nostro modo di essere in maniera olistica, integrando tutte le nostre dimensioni: come si dice, l’attenzione cade sul nostro sé, configurando un modo di essere olistico la cui espressione sarebbe proprio la nostra condotta morale. Nel secondo caso, invece, l’attenzione è focalizzata maggiormente su ciò che facciamo o non facciamo; E, indipendentemente dal fatto che ciò che facciamo o non facciamo abbia un impatto maggiore o minore sul nostro modo di essere, il peso ricade sulle azioni, non tanto sul nostro modo di essere. La differenza potrebbe essere espressa come un’attenzione al carattere morale della persona, sia “dall’interno” che “dall’esterno”.

Per Aranguren il significato fondamentale è il primo, anche se nel corso della storia si è data maggiore importanza al secondo, concentrando l’attenzione sugli atti e sulle abitudini morali. Il carattere inteso nella sua totalità è stato scomposto a favore dell’analisi delle diverse virtù e dei diversi vizi. La conseguenza di questo approccio fu la perdita di un certo senso unitario della realtà morale, una frammentazione dell’essere umano e della sua vita pratica; L’attenzione si concentra più su ciò che si fa che su ciò che si è, con il rischio che ciò che si fa non corrisponda necessariamente a ciò che si è.

Certamente, considerare il carattere come una fonte è complesso, poiché non è così accessibile o visibile come le azioni e le abitudini: è più facile trattare queste ultime che le prime. Perché il carattere come fonte non si manifesta né può essere modificato direttamente, ma solo indirettamente, proprio attraverso lo svolgersi della nostra esistenza, attraverso il nostro vivere. Ma se questa dimensione non viene affrontata correttamente, ne emerge la controparte: potrebbe esserci un divario tra ciò che facciamo e ciò che siamo, portandoci a confonderci pensando che ‘facendo’ buone azioni ‘siamo’ buoni. Si tratta di due cose molto diverse: uno può benissimo agire bene, ma ciò non implica necessariamente che questa bontà emerga dal profondo del nostro essere, ingannando non solo chi ci osserva (il che è anche vero), ma soprattutto noi stessi. Perché in effetti è comune che l’esterno prenda il sopravvento sull’interno, non agendo secondo quello che siamo e come siamo, ma secondo quello che dobbiamo o non dobbiamo fare; che può generare tensioni interne più o meno gravi non andando oltre ciò che siamo e come siamo, da una parte, con ciò che facciamo, dall’altra, una tensione ragionevole e sana che ci permetta di crescere.

Karol Wojtyla, Papa Giovanni Paolo II, propone un modo per affrontare questa situazione nel suo libro altamente consigliato Persona e azione.Come suggerisce il titolo, la riflessione di Wojtyla cerca di comprendere la persona analizzando ciò che costituisce strettamente un’“azione”, cioè una delle modalità del nostro comportamento in cui la nostra dimensione personale si esprime in modo peculiare. Nella sua analisi, Wojtyla studia quella che chiama dinamica, cioè le dinamiche che si verificano nel nostro essere personale e che, ed è importante sottolinearlo, non si riducono alla nostra dimensione cosciente: a suo avviso, se un’analisi della persona prendesse in considerazione solo la coscienza, sarebbe destinata a essere inadeguata, perché la persona è innanzitutto una “unità di vita” e non un’unità di esperienza. Ciò implica considerare quelle dimensioni inconsce del nostro essere che, pur essendo inconsce, non cessano di essere umane.

Fedele alla sua concezione olistica della persona, Wojtyla distingue al suo interno diverse dinamiche, le quali, più che dinamiche autonome e indipendenti, coincidenti dentro di noi, sono modi diversi di dare origine a quell’unica, grande dinamica che è la vita vivente, la vita umana, la vita personale. Egli distingue grossomodo tre dinamiche: somatico-vegetativa, psicoaffettiva e spirituale-cosciente. Non è che queste dinamiche esistano all’interno della persona, ma piuttosto sono tutte intrinseche al suo essere personale; sono un’espressione della sua esistenza. L’operatività umana non avviene al di fuori delle dinamiche somatico-vegetative e psico-emozionali, ma le presuppone e si basa su di esse. Il nostro corpo ha dinamiche biologiche proprie che non sono “qualcosa di diverso” dalla persona che siamo, ma piuttosto formano una parte intrinseca del nostro essere, intervenendo e influenzando il nostro comportamento spirituale, proprio come il nostro comportamento spirituale influenza e condiziona le dinamiche biologiche.

La verità è che questi processi spesso passano inosservati; In alcuni casi questo è inevitabile, in altri no: buona parte dei processi inerenti a queste dinamiche avvengono al di sotto della coscienza, in altri casi invece non è necessariamente così e possono essere individuati benissimo se si ha sufficiente sensibilità. Questo è esattamente ciò a cui mira Wojtyla: integrare adeguatamente tutte le nostre dinamiche nell’agire umano, il che implica l’identificazione, la conoscenza e la comprensione, nella misura del possibile, del modo in cui esse si svolgono e si relazionano tra loro. L’agire umano non appartiene strettamente al dinamismo spirituale-cosciente, ma appartiene alla persona intera, con tutti i suoi dinamismi. Il punto è che tutti loro sono armoniosamente integrati per il bene del nostro essere personale, perché potrebbero benissimo essere disintegrati.

A mio parere, sembra ragionevole stabilire – ed è qui che volevo arrivare – un certo parallelismo tra l’ethos classico, da un lato, e la persona con le sue dinamiche integrate, dall’altro. Perché se l’ethos ha a che fare con la configurazione del carattere in modo olistico, così che esso diventi la fonte delle nostre azioni ‘da dentro’, questo ‘da dentro’ può essere compreso alla luce delle dinamiche biologiche che Wojtyla ci spiega, sulle quali si costruiscono quelle spirituali. Si aprono così piste di riflessione e di ricerca in cui biologia e antropologia possono arricchirsi a vicenda.

Alfredo Esteve Martín – Università Cattolica di Valencia

Observatorio de Bioética UCV

El Observatorio de Bioética se encuentra dentro del Instituto Ciencias de la vida de la Universidad Católica de Valencia “San Vicente Mártir” . En el trasfondo de sus publicaciones, se defiende la vida humana desde la fecundación a la muerte natural y la dignidad de la persona, teniendo como objetivo aunar esfuerzos para difundir la cultura de la vida como la define la Evangelium Vitae.