L’articolo “Carisma e gerarchia in San Paolo” ha suscitato molti commenti interessanti, per i quali esprimo un sentito ringraziamento. Questi commenti mi hanno fatto capire una cosa di cui finora non avevo colto l’importanza: l’innovazione ecclesiologica che il Concilio Vaticano II ha apportato dichiarando le diocesi “Chiese particolari”. Con questo breve saggio voglio mostrare come questa innovazione comporti un rinnovamento ecclesiale di vasta portata e come le decisioni del Papa sulla prelatura personale dell’Opus Dei siano al servizio di questo rinnovamento: con esse il Papa risolve un importante paradosso ecclesiale.
Il mio punto di partenza è il racconto autobiografico di San Paolo sulla sua conversione e sul suo battesimo, in Atti 22, 12-16:
“Un certo Anania, uomo devoto secondo la legge, ben considerato da tutti i Giudei che abitavano lì, venne da me e stando davanti a me disse: ‘Saulo, fratello, recupera la vista’. E in quel momento potei vederlo. Mi disse: ‘Il Dio dei nostri padri ti ha designato per conoscere la sua volontà, per vedere il Giusto e per ascoltare la voce delle sue labbra, perché tu gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini di ciò che hai visto e udito. E ora, cosa state aspettando? Alzati, ricevi il battesimo e lava i tuoi peccati invocando il suo nome’.”
Il significato vocazionale del Battesimo è qui evidente: la ricezione del Sacramento attualizza la risposta di San Paolo alla chiamata divina, conferma il carisma e comunica la grazia di raggiungere la vita eterna. Il senso vocazionale della vita cristiana è caratteristico delle comunità della Chiesa apostolica. In esse, l’appartenenza alla Chiesa attraverso il vincolo del Battesimo è vissuta come vincolo vocazionale o risposta a una chiamata divina che informa l’intera esistenza.
Come ho sottolineato nel primo articolo, con la crescita della Chiesa, la funzione di amministrare i Sacramenti ha assunto una maggiore importanza e si è sviluppata la corrispondente struttura amministrativa. È la struttura che alla fine sarà regolamentata nel Codice di diritto canonico (CIC). Poiché, in ultima analisi, questa struttura è al servizio dell’amministrazione dei Sacramenti, è ovvio che è una manifestazione dell’incarnazione del Verbo, e lo stesso si può dire del CIC stesso. Inoltre, funzione e struttura sono espressione della misericordia divina, della preoccupazione di Dio che tutti possano ricevere i Sacramenti e raggiungere la vita eterna.
Tuttavia, senza volerlo, si sviluppa anche una “mentalità funzionale e amministrativa” che caratterizzerà la Chiesa nei secoli successivi, fino al Concilio Vaticano II: la Chiesa è concepita in un certo senso come una “multinazionale”, e le Diocesi sono come le sue sedi regionali. Questa accezione eminentemente amministrativa si consolida nel III secolo, quando Diocleziano organizza l’Impero Romano secondo circoscrizioni amministrative territoriali (diœcésis), e la Chiesa adotta un’organizzazione simile; tale accezione prevale ancora oggi nella percezione comune.
In un certo senso si può parlare di un “paradosso ecclesiale”: da un lato, l’aspetto sacramentale della Chiesa richiede di garantire l’amministrazione del Battesimo e degli altri Sacramenti a tutti, in modo serio ed efficace, e questo condiziona l’ascrizione a una circoscrizione amministrativa (diocesi) attraverso un vincolo non-vocazionale (domicilio, rito o simili); dall’altro, il Battesimo contiene in germe una chiamata divina, a seguire Gesù Cristo con la radicalità dei primi cristiani, una vocazione latente che, come l’olio in una lampada, attende di essere accesa.
Il paradosso è evidente nella pratica del Battesimo dei bambini: sebbene in quanto tale contenga una chiamata vocazionale, la sua somministrazione non genera un legame vocazionale, poiché manca l’accettazione consapevole e libera della chiamata.
Questo sviluppo “paradossale” ha portato di fatto alla perdita del senso vocazionale caratteristico delle comunità della Chiesa apostolica. Il pregiudizio che la vita ordinaria nel lavoro e nella famiglia si sviluppi al di fuori di una chiamata di Dio alla santità finì per imporsi.
La chiave per risolvere questo paradosso si trova nell’ecclesiologia del Concilio Vaticano II. Il tassello fondamentale dell’ecclesiologia conciliare è il concetto di “Chiesa particolare”, secondo la seguente affermazione del decreto Christus Dominus, 11 §1:
La diocesi è una porzione del popolo di Dio affidata alle cure pastorali del vescovo, coadiuvato dal suo presbiterio, in modo che, aderendo al suo pastore, e da questi radunata nello Spirito Santo per mezzo del Vangelo e della eucaristia, costituisca una Chiesa particolare nella quale è presente e opera la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e postolica.
Riferendosi alle “Chiese particolari”, il Concilio afferma che “formate ad immagine della Chiesa universale, ed è in esse e a partire da esse che esiste la Chiesa cattolica una e unica.”(Lumen gentium, n. 23§1). E aggiunge che la Chiesa universale, in quanto “Corpo mistico”, “è anche il corpo delle Chiese” (Lumen gentium, n. 23§1), in continuità con la teologia ecclesiale di Pio XII nella Mystici Corporis (cfr. Communionis notio, nota 44). Senza minimizzare l’importanza delle Diocesi come unità amministrative e funzionali, il Concilio Vaticano II sottolinea che esse devono essere anche ciò che sono costitutivamente, “Chiese particolari”, e propone quindi una ricostruzione della struttura pastorale della Chiesa nei tempi apostolici (Lumen gentium, n. 26.1).
Il desiderio che le “diocesi” siano più che semplici unità amministrative, anima l’intera ecclesiologia conciliare ed è in sintonia con un altro insegnamento fondamentale del Vaticano II: la vocazione universale alla santità (Lumen gentium, cap. V). Il Concilio riscopre l’importanza del vincolo vocazionale contenuto nel Battesimo (Lumen gentium, n. 40§1), che è latente nel Sacramento, anche quando viene ricevuto senza un atto consapevole e deliberato come nel caso del Battesimo dei bambini. Definendo la “Chiesa particolare” come “porzione del popolo di Dio”, si riconosce che l’appartenenza alla Chiesa particolare ha in realtà il carattere di un legame vocazionale. L’accento definitorio si sposta così dall’aspetto amministrativo-funzionale e territoriale a quello vocazionale.
Con le parole di Papa Francesco, si può dire che questo rinnovamento ecclesiale conciliare si propone di:
- incoraggiare tutti i fedeli a essere “i santi della porta accanto” (Gaudete et Exultate, 6-9);
- superare il “funzionalismo”: “Noi dimentichiamo a volte il Battesimo, e il sacerdote diventa una funzione: il funzionalismo, e questo è pericoloso. Non dobbiamo mai dimenticare che ogni vocazione specifica, compresa quella all’Ordine, è compimento del Battesimo.” (Discorso al Simposio “Per una teologia fondamentale del sacerdozio”).
Questo progetto di rinnovamento rende evidente l’importanza di promuovere tra i fedeli laici la ricerca della santità nelle circostanze ordinarie della vita, attraverso la santificazione del lavoro e degli impegni familiari e sociali: tanto una vocazione divina è quella dei ministri ordinati che vivono il celibato, quanto quella dei fedeli laici che vivono il matrimonio. Ciò richiede un intenso programma di accompagnamento e formazione spirituale (teologica, apostolica, familiare) dei fedeli laici, e strumenti capaci di assumere questo compito con professionalità e continuità. E (sicuramente non senza l’ispirazione dello Spirito Santo) il Concilio ha previsto tali strumenti, tra cui le prelature personali.
Certo, sia il decreto conciliare che definisce la prelatura personale (Presbyterorum ordinis, n. 10), sia il Motu proprio per la sua applicazione (Ecclesiae Sanctae, I, n. 4) lasciano ampio spazio all’interpretazione del vincolo che definisce l’appartenenza a questa realtà ecclesiale. D’altra parte, il fondatore dell’Opus Dei, San Josemaría, il suo successore, il Beato Álvaro del Portillo, e Papa Giovanni Paolo II intuirono il potenziale di questa figura giuridica per accogliere istituzioni secolari con un legame vocazionale, e “apparve [loro] chiaro che tale figura era perfettamente adeguata all’Opus Dei.” (Ut sit). Ora, Papa Francesco ha ratificato questa intuizione: confermando l’Opus Dei nell’ “nell’ambito autenticamente carismatico della Chiesa, […] in sintonia alla testimonianza del Fondatore, san Josemaría Escrivá de Balaguer, e agli insegnamenti dell’ecclesiologia conciliare circa le Prelature personali” (Ad Charisma tuendum), il Papa conferma di fatto che possono esistere prelature personali con un legame vocazionale. Egli completa così l’ecclesiologia del Vaticano II a vantaggio del progetto conciliare di armonizzare funzione e vocazione nelle Diocesi per renderle Chiese particolari, secondo l’ideale delle realtà ecclesiali del tempo apostolico. Il Successore di Pietro risolve così l’importante paradosso ecclesiale citato in precedenza, e dimostra che la Chiesa riesce sempre a trovare spazio per tutte le grandi innovazioni che lo Spirito Santo suscita in mezzo a lei (cfr. Joseph Card. Ratzinger, Roma, 27-29 maggio 1998).
Il Signore desidera una risposta libera e generosa alla sua chiamata alla santità (cfr. Marco 10, 17-30), e il suo metodo è quello di formare alcuni che agiscano come lievito. Questa è la missione delle prelature personali con legami vocazionali: la loro azione è “complementare e non competitiva con quella delle diocesi e delle parrocchie, e i loro membri laici rimangono pienamente fedeli delle loro diocesi e parrocchie” (Fernando Ocáriz, intervista dell’11.08.2023); le Chiese particolari e le Prelature personali hanno bisogno l’una dell’altra, sono chiamate ad arricchirsi e rafforzarsi a vicenda.
In questo contesto le seguenti parole di San Josemaría sono molto significative:
Per questo motivo, figli miei, possiamo dire che su di noi grava la preoccupazione e la responsabilità di tutta la Chiesa – sollicitudo totius Sanctae Ecclesiae Dei – e non dell’una o dell’altra porzione particolare. Dando appoggio al Romano Pontefice e agli Ordinari diocesani, che hanno una responsabilità ufficiale, giuridica, de iure divino, noi, con una responsabilità non giuridica ma spirituale, ascetica, che nasce dall’amore, offriamo a tutta la Chiesa un servizio di indole professionale, di cittadini che fanno arrivare la testimonianza cristiana dell’esempio e della dottrina fino ai punti più remoti della società civile. (Lettera sull’opera di San Gabriele, n. 15)
In vista del centenario dell’Opus Dei, penso che questo insegnamento del Fondatore sia ampiamente corroborato dallo sviluppo di questa Prelatura personale. Mi limito qui a segnalare alcune realtà: 1) Il lavoro per motivare e abilitare i fedeli laici a vivere quotidianamente un impegnativo programma di vita cristiana ed a svolgere un’efficace attività personale di evangelizzazione e di accompagnamento spirituale nel loro ambiente professionale e familiare. 2) Il processo di incorporazione alla Prelatura, che sottolinea il carattere vocazionale dell’appartenenza ad essa come libera risposta alla chiamata di Gesù Cristo a seguirlo. 3) L’istituzionalizzazione di diversi modi di vivere lo stesso vincolo, che garantiscano a qualsiasi fedele i mezzi per santificare la propria vita ordinaria, senza dover cambiare il proprio status canonico, ad esempio: fedeli laici Aggregati che vivono nel celibato apostolico e, per varie esigenze personali o familiari, continuano ad abitare con la loro famiglia, senza cambiare di posto; fedeli laici Soprannumerari che vivono la vita coniugale e familiare con senso vocazionale, e anche formano professionalmente i giovani e gli sposi alla vita familiare (molto in linea con Ivenescit Ecclesia 22a); parroci incardinati nelle Chiese locali e membri della Società Sacerdotale della Santa Croce, che sono spinti della loro vocazione all’Opus Dei a vivere più profondamente la loro vocazione sacerdotale senza cadere nel funzionalismo, a rafforzare l’unità con il loro Ordinario e ad accendere nei loro parrocchiani il fuoco vocazionale del Battesimo.
Tutte queste realtà confermano che l’intenso lavoro di formazione dell’Opus Dei mira a rafforzare la dimensione vocazionale dell’appartenenza alla Chiesa particolare come “compimento del Battesimo”. Un’opera ad immagine di quella che San Paolo “realizzava con ‘strutture pastorali’ come quella descritta in Romani 16”, cioè una realtà ecclesiale composta da sacerdoti e laici, uomini e donne, sposati e celibi, uniti dallo stesso vincolo vocazionale e da una giurisdizione personale (cfr. Carisma e gerarchia in San Paolo).
In conclusione: “a relazione della Prelatura con le Chiese particolari è necessariamente una relazione di servizio: tutta l’attività dell’Opus Dei è diretta a collaborare all’intensificazione della vita cristiana dei fedeli delle Chiese particolari (che appartengano o meno all’Opus Dei)”. (Fernando Ocáriz, Palabra (310, II-1991 (92)). Continuando con l’immagine della Chiesa come corpo, si potrebbe dire che le “Prelature personali con vincolo vocazionale” sono chiamate ad essere come il sangue nel sistema circolatorio di quel corpo: la loro missione consisterà nel vivificare le diverse membra del corpo, accendendo in loro la chiamata alla santità latente nel Battesimo, in unità con la testa e spinte dal battito del cuore. In questo modo, la Prelatura personale dell’Opus Dei continuerà ad essere “un valido ed efficace strumento della missione salvifica che la Chiesa adempie per la vita del mondo” (Ad Charisma tuendum), poiché il sistema circolatorio della Chiesa (Corpo di Cristo) è in definitiva il sistema circolatorio dell’umanità (cfr. Lumen Gentium 1; CCE 760).