La prossima visita del S. Padre in Sud Sudan, dal 5 al 7 luglio, servirà a “portare la pace tra la gente”, a radicarla nella società, ora che quella raggiunta a livello politico sembra tenere con il governo di unità nazionale. Ne è convinto mons. Christian Carlassare, il giovane (44 anni) vescovo di Rumbek, consacrato meno di un mese fa dopo il rinvio della cerimonia a causa dell’attentato dello scorso anno in cui venne “gambizzato”. Il vescovo ne ha parlato durante una conversazione a distanza con un gruppo di giornalisti, organizzata dall’Associazione Iscom, in cui ha definito l’Africa un possibile “un laboratorio di ecumenismo”.
Pace, un processo lento
“L’Africa rimane sempre un’emergenza – ha detto Carlassare – ma ora siamo in un momento di stabilizzazione, l’accordo di pace 2018 sta prendendo forma. Come in tutte le realtà africane sono processi molto lenti e fragili. Dobbiamo guardare la realtà sociale e politica con attenzione, vedendo segni di speranza ma senza mai cantare vittoria perché c’è una tendenza a vivacchiare. Al momento il governo di unità nazionale è abbastanza forte, vari gruppi di opposizione non sono entrati nel governo, ma le tensioni sono diminuite”.
Un problema è che le forze governative “hanno lavorato per indebolire e dividere l’opposizione rimasta esclusa ma questo limita le possibilità di dialogo e divide anche la gente. Serve dialogo e la comunità di S. Egidio continua nel suo impegno con le opposizioni che non sono al governo”.
Troppe armi
Un altro problema riguarda le armi che circolano: “Negli ultimi mesi ci sono stati episodi di violenza, non c’è una guerra aperta ma in alcune località sono preoccupanti. Lo scorso mese ci sono stati attacchi in alcuni villaggi per spaventare la gente e controllare le risorse, con violenze sessuali e villaggi bruciati”. Anche un centro pastorale è stato dato alle fiamme e due missioni sono state saccheggiate. “Non si sa da dove vengono, certo sono gruppi che alzano il tiro per chiedere più spazio nell’arena politica. Le armi sono molto presenti in diversi territori. Se a questo aggiungiamo 4-5 milioni di sfollati che non vivono nel loro territorio e i rifugiati nei paesi limitrofi, ancora non si può parlare di pacificazione vera. Bisogna lavorare molto su questo”.
La continuità del cammino
In questo senso è importante la visita del Papa, come ha sottolineato mons. Carlassare rispondendo a una domanda: “Il Papa nella sua grandezza ma anche nella sua umiltà sa che queste cose hanno bisogno di un lungo percorso. Non penso che venga in Sud Sudan per vedere la pace attuata ma per far sì che il cammino di pace continui. L’invito del S. Padre ai leader politici qualche anno fa, con il bacio ai loro piedi e la richiesta di un governo di unità nazionale, è stato un successo che però va ripetuto di anno in anno. Per questo serve che il Papa venga, per dare continuità a questo processo ma soprattutto perché la pace annunciata e chiesta ai politici sia portata alla gente. La Chiesa è vicina alla gente più umile, deve esserci un impegno forte della popolazione per la pace”.
Il Pontefice è molto apprezzato
Papa Francesco in Sud Sudan gode di un “grandissimo apprezzamento. La popolazione cattolica è meno della metà del Paese e forte è anche la presenza protestante. Ma non si vedono divisioni. Anche l’8% dei musulmani vede il Papa come una figura che richiama alla dignità umana, alla pace, alla fratellanza, all’unità. C’è grande fermento, grande gioia nel sentire questa attenzione che il Papa dà al Sud Sudan e sono convinti che ci saranno i riflettori di tutto il mondo sul Paese, tutto il mondo sentirà la voce del Pontefice in favore del Sud Sudan”.
Laboratorio di ecumenismo
Anche perché la visita del S. Padre “non viene vista come proselitismo. Penso sia molto bello che alla visita partecipino anche l’arcivescovo di Canterbury Welby e il moderatore della Chiesa presbiteriana scozzese, perché unifica l’impegno delle chiese in Sud Sudan. Qui è presente il Consiglio delle Chiese, il percorso di riconciliazione è fatto insieme. L’ecumenismo in Italia o in Europa ha una base di dialogo teologico, e va benissimo. Qui non si riesce in questo senso ma l’Africa può essere un laboratorio di ecumenismo, dove, finalmente, le diversità non sono fonte di divisione ma di cammino comune per la pace”.
Sfollati e rifugiati, no ai ghetti
Rispondendo a una domanda di Exaudi, mons. Carlassare ha fatto il punto sulle condizioni dei rifugiati. “Alcuni sfollati sono tornati nei territori di origine e in qualche modo si sono stabiliti in quelle località anche se sono molto rurali. Quando c’è sicurezza dovrebbero essere in grado di accedere alle città, dove si sono più servizi. Poi ci sono gli sfollati che vivono nei campi, fino all’anno scorso chiamati campi di protezione dei civili, vicini ai campi Onu. In quello di Rubkona vivono 150.000 persone. L’Onu continua a fornire cibo ma non garantisce la sicurezza, curata da gente locale.
Questi campi non devono diventare ghetti ai limiti delle città. Spesso sono popolati interamente da tribù o clan. Dovrebbero tornare nei loro territori oppure servirebbero programmi urbani in cui costruire case dove però non ci siano persone di un unico gruppo etnico, altrimenti potrebbero essere una mina da cui la violenza potrebbe riparte rapidissima”.
Per quanto riguarda i rifugiati all’estero “ci sono molte difficoltà per il loro rientro, perché non hanno lavoro. Penso che ci vorranno anni, qualcuno proverà a tornare ma molti altri, soprattutto quelli che ora sono in Uganda, sono tentati di restare in quel paese pacifico. La ripresa economica potrebbe dare speranza ma è ancora germinale. Se non c’è sicurezza o ci sono alluvioni, la gente coltiva ben poco. La città di Malakal è passata da 180.000 abitanti a 20.000, per i 4/5 è rasa al suolo. E tutti i 20.000 sono di un unico gruppo etnico, gli altri sono andati via”.
Il dramma delle alluvioni
Quelli della sicurezza e dei cambiamenti climatici sono altri due problemi con cui si trova a fare i conti il Sud Sudan. “Negli ultimi due anni il cambiamento climatico è preoccupante” spiega il vescovo. “Le piogge sono diventate irregolari. Il Nilo si è ingrossato in modo spropositato, forse dipende anche dalle dighe a monte, ma quando è in piena ci sono grandissime aree allagate. Così la popolazione costretta a spostarsi con il bestiame per vivere. Questo incrementa la conflittualità interna. Poi c’è il bisogno di lavorare per portare la pace dai ‘piani alti’ ai territori, con il disarmo. Ci vogliono anni, non è una cosa facile”.
Le tensioni riguardano soprattutto il controllo delle risorse: “Nei territori più poveri non ci sono molti conflitti. Riguardano soprattutto le aree dove c’è petrolio ma anche i boschi di mogano e tek, o anche le zone estrattive. Un segnale positivo è arrivato ad aprile, un passo avanti significativo per l’implementazione dell’accordo di pace. Il presidente ha annunciato la formazione di un esercito unificato. Finora c’erano tante milizie divise. Il 12 aprile ha lanciato in tv questa nuova forza unificata. Un passo avanti ma con serve attenzione con chi è rimasto fuori, ci sono tantissimi militari e armi di cui non ci sarebbe bisogno”.
La scuola, impegno prioritario
In questo quadro l’impegno della Chiesa è anche nel fornire servizi, soprattutto educazione e sanità. “I servizi sono poveri e questo è un problema” dice il vescovo. “Per ora sono sostenuti da aiuti internazionali ma fino a quando? La Chiesa fa un lavoro di base, per progetti di sviluppo, educazione, salute, per sensibilizzare la realtà locale a essere partecipativa nel sostenere le attività, altrimenti è una costruzione molto fragile”.
Importante l’impegno per l’educazione a Rumbek: “Molti chiamano la scuola ‘Comboni’, perché i missionari comboniani hanno investito tanto in questo. Abbiamo 21 scuole primarie e una decina di secondarie. C’è anche un ‘accelerated learning program’ per gli adulti, 4 anni di scuola invece di 8. Vent’anni fa la popolazione al centro del Sud Sudan, devastato dal conflitto, era marginalizzata, ora troviamo giovani formati che danno grande speranza. Gran parte dei ministri regionali si sono formati nelle scuole della chiesa, sono cattolici o protestanti, ma hanno ricevuto una formazione umana che permette di dare un grande contributo”.
Altri campi di intervento sono la sanità (“c’è un 3-4% di positivi all’Aids, l’epatite sfiora il 10%. C’è bisogno di cura della persona) e i centri di ascolto per situazioni familiari particolari: violenza domestica, vicinato, matrimoni forzati. “La dote, infatti, è un grosso problema perché servono 80, 100, 150 vacche e spesso i matrimoni non si fanno per amore ma per convenienza”.
A Giuba anche in barca per vedere il Papa
Ma nonostante le difficoltà, la visita del Papa è molto attesa. “I vescovi di Giuba e Malakal con un ampio comitato stanno preparando un programma non troppo stancante per il Pontefice ma sappiamo che vuole incontrare gente. Resterà a Giuba, senza grandi spostamenti, e lì confluiranno rappresentanti da tutto il paese. Vivranno giorni per strada, non tutti potranno volare, alcuni arriveranno in barca, altri in auto e anche a piedi”.
“L’Africa mi ha preso il cuore”
Mons. Carlassare venne ferito il 26 aprile dello scorso anno. Rievoca così la sua vicenda personale: “Per due mesi sono stato a Nairobi, per vari interventi e la riabilitazione, poi in Italia per vari mesi. Ho ripreso la funzione delle gambe, devo fare esercizi per i muscoli e migliorare la circolazione, ma ho superato la cosa. Ci sono stati alcuni arresti, c’è un processo in corso con 4 persone in prigione. È possibile una sentenza la prossima settimana. È stata una ferita non solo fisica ma del cuore, c’è bisogno di riconciliazione e ascolto, capire paure e bisogni, con una giustizia riparativa che nasce dal perdono, mai punitiva”.
“L’Africa mi ha preso il cuore” conclude mons. Carlassare. “Mi sono appassionato a questa cultura e a questo popolo. Dopo 17 anni in Sud Sudan penso di sentirmi un po’ africano e mi sento unito al loro cammino”.