Viaggio Apostolico di Sua Santità Francesco in Canada

Incontro con le Popolazioni Indigene e con i Membri della Comunità Parrocchiale presso la Chiesa del Sacro Cuore

Viaje a Canadá © Vatican Media

Nel pomeriggio, lasciato il St. Joseph Seminary, il Santo Padre Francesco si trasferisce in auto alla Chiesa del Sacro Cuore, dove – alle ore 16.45 (00.45 ora di Roma) – incontra le Popolazioni Indigene e i Membri della Comunità Parrocchiale.

Al Suo arrivo è accolto all’ingresso della chiesa dal Parroco, Padre Padre Susai Jesu, O.M.I., ed entra accompagnato dal suono dei tamburi.

Dopo le parole di benvenuto del parroco e la testimonianza di due parrocchiani membri del Consiglio e l’esecuzione di un canto indigeno, il Papa pronuncia il Suo discorso.

Quindi, dopo la recita del Padre Nostro e la Benedizione finale, Papa Francesco saluta alcuni fedeli e, uscendo, benedice la statua di Santa Kateri Tekakwitha, prima indigena del Nord America ad essere stata proclamata santa dalla Chiesa cattolica.

Al termine dell’incontro il Santo Padre rientra in auto al St. Joseph Seminary dove cena in privato.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre rivolge ai presenti nel corso dell’incontro:

Discorso del Santo Padre

Cari fratelli e sorelle, buonasera!

Sono felice di essere tra voi e di rivedere i volti di diversi rappresentanti indigeni che pochi mesi fa sono venuti a trovarmi a Roma. Quella visita ha significato molto per me: ora sono io a casa vostra, amico e pellegrino nella vostra terra, nel tempio dove vi trovate per lodare Dio come fratelli e sorelle. A Roma, dopo avervi ascoltato, vi dissi che «un efficace processo di risanamento richiede azioni concrete» (Discorso alle delegazioni dei popoli indigeni del Canada, 1° aprile 2022). Sono lieto di vedere che in questa parrocchia, nella quale confluiscono persone di diverse comunità delle First Nations, dei Métis e degli Inuit, insieme a gente non indigena dei quartieri locali e a diversi fratelli e sorelle immigrati, tale lavoro è già iniziato. Ecco una casa per tutti, aperta e inclusiva, così come dev’essere la Chiesa, famiglia dei figli di Dio dove l’ospitalità e l’accoglienza, valori tipici della cultura indigena, sono essenziali: dove ognuno deve sentirsi benvenuto, indipendentemente dalle vicende trascorse e dalle circostanze di vita individuali. E vorrei anche dirvi grazie per la vicinanza concreta a tanti poveri – sono numerosi anche in questo ricco Paese – attraverso la carità: è ciò che desidera Gesù, il quale ci ha detto e ci ripete sempre nel Vangelo: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).

Al tempo stesso, non dobbiamo dimenticare che anche nella Chiesa al grano buono si mescola la zizzania. E proprio a causa di questa zizzania ho voluto intraprendere questo pellegrinaggio penitenziale, e cominciarlo stamani facendo memoria del male subito dalle popolazioni indigene da parte di tanti cristiani e chiedendone perdono con dolore. Mi ferisce pensare che dei cattolici abbiano contribuito alle politiche di assimilazione e affrancamento che veicolavano un senso di inferiorità, derubando comunità e persone delle loro identità culturali e spirituali, recidendo le loro radici e alimentando atteggiamenti pregiudizievoli e discriminatori, e che ciò sia stato fatto anche in nome di un’educazione che si supponeva cristiana. L’educazione deve partire sempre dal rispetto e dalla promozione dei talenti che già ci sono nelle persone. Non è e non può mai essere qualcosa di preconfezionato da imporre, perché educare è l’avventura di esplorare e scoprire insieme il mistero della vita. Grazie a Dio, in parrocchie come questa, attraverso l’incontro, si costruiscono giorno dopo giorno le basi per la guarigione e la riconciliazione.

Riconciliazione: è su questa parola che stasera vorrei condividere alcune riflessioni. Che cosa ci suggerisce Gesù in proposito, che significato ha per noi oggi? Cari amici, la riconciliazione operata da Cristo non è stata un accordo di pace esterno, una sorta di compromesso per accontentare le parti.


Nemmeno è stata una pace calata dal cielo, arrivata per imposizione dall’alto o per assorbimento dell’altro. L’Apostolo Paolo spiega che Gesù riconcilia mettendo insieme, facendo di due realtà distanti un’unica realtà, una cosa sola, un solo popolo. E come fa? Per mezzo della croce
(cfr Ef 2,14). È Gesù che ci riconcilia fra di noi sulla croce, su quell’albero di vita, come amavano chiamarlo gli antichi cristiani.

Voi, cari fratelli e sorelle indigeni, avete molto da insegnare sul significato vitale dell’albero che, congiunto alla terra dalle radici, dà ossigeno attraverso le foglie e ci nutre con i suoi frutti. Ed è bello vedere la simbologia dell’albero rappresentata nella fisionomia di questa chiesa, dove un tronco congiunge al terreno un altare sul quale Gesù ci riconcilia nell’Eucaristia, «atto di amore cosmico» che «unisce il cielo e la terra, abbraccia e penetra tutto il creato» (Lett. enc. Laudato si’, 236). Questo simbolismo liturgico ricorda un passaggio stupendo pronunciato da San Giovanni Paolo II in questo Paese: «Cristo anima il centro stesso di ogni cultura, per cui non solo il cristianesimo interessa tutte
le popolazioni indiane, ma Cristo, nei membri del suo corpo, è egli stesso indiano» (Liturgia della Parola con gli Indiani del Canada, 15 settembre 1984). Ed è Lui che sulla croce riconcilia, rimette insieme ciò che sembrava impensabile e imperdonabile, abbraccia tutti e tutto. Tutti e tutto: le popolazioni indigene attribuiscono un forte significato cosmico ai punti cardinali, intesi non solo come punti di riferimento geografico ma anche come dimensioni che abbracciano la realtà intera e indicano la via per risanarla, rappresentata dalla cosiddetta “ruota della medicina”. Questo tempio fa propria tale simbologia dei punti cardinali e vi attribuisce un significato cristologico. Gesù, attraverso
le estremità della sua croce, ha abbracciato i punti cardinali e ha riunito i popoli più distanti, ha risanato e pacificato tutto (cfr Ef 2,14). Lì ha compiuto il disegno di Dio: “riconciliare tutte le cose” (cfr Col 1,20).

Fratelli, sorelle, che cosa vuol dire questo per chi porta dentro ferite tanto dolorose? Immagino la fatica, in chi ha sofferto tremendamente a causa di uomini e donne che dovevano dare testimonianza di vita cristiana, a vedere qualsiasi prospettiva di riconciliazione. Nulla può cancellare la dignità violata, il male subìto, la fiducia tradita. E nemmeno la vergogna di noi credenti deve mai cancellarsi.

Ma occorre ripartire e Gesù non ci propone parole e buoni propositi, ma la croce, quell’amore scandaloso che si lascia infilzare i piedi e i polsi dai chiodi e trafiggere la testa di spine. Ecco la direzione da seguire: guardare insieme Cristo, l’amore tradito e crocifisso per noi; guardare Gesù, crocifisso in tanti alunni delle scuole residenziali. Se vogliamo riconciliarci tra di noi e dentro di noi, riconciliarci con il passato, con i torti subiti e la memoria ferita, con vicende traumatiche che nessuna consolazione umana può risanare, lo sguardo va alzato a Gesù crocifisso, la pace va attinta al suo altare. Perché è proprio sull’albero della croce che il dolore si trasforma in amore, la morte in vita, la
delusione in speranza, l’abbandono in comunione, la distanza in unità. La riconciliazione non è tanto un’opera nostra, è un dono che sgorga dal Crocifisso, è pace che viene dal Cuore di Gesù, è una grazia che va chiesta.

C’è un altro aspetto della riconciliazione di cui vorrei parlarvi. L’Apostolo Paolo spiega che Gesù, per mezzo della croce, ci ha riconciliati in un solo corpo (cfr Ef 2,14). Di quale corpo parla?  Della Chiesa: la Chiesa è questo corpo vivente di riconciliazione. Ma, se pensiamo al dolore
incancellabile provato in questi luoghi da tanti all’interno di istituzioni ecclesiali, viene solo da provare rabbia e vergogna. Ciò è avvenuto quando i credenti si sono lasciati mondanizzare e, anziché promuovere la riconciliazione, hanno imposto il loro modello culturale. Questo atteggiamento è duro a morire, anche dal punto di vista religioso. Infatti, sembrerebbe più conveniente inculcare Dio nelle persone, anziché permettere alle persone di avvicinarsi a Dio. Ma non funziona mai, perché il Signore non agisce così: egli non costringe, non soffoca e non opprime; sempre, invece, ama, libera e lascia liberi. Egli non sostiene con il suo Spirito chi assoggetta gli altri, chi confonde il Vangelo della
riconciliazione con il proselitismo. Perché non si può annunciare Dio in un modo contrario a Dio.

Eppure, quante volte è successo nella storia! Mentre Dio semplicemente e umilmente si propone, noi abbiamo sempre la tentazione di imporlo e di imporci in suo nome. È la tentazione mondana di farlo scendere dalla croce per manifestarlo con la potenza e l’apparenza. Ma Gesù riconcilia sulla croce, non scendendo dalla croce. Giù, attorno alla croce, c’erano quelli che pensavano a sé stessi e tentavano Cristo ripetendogli di salvare sé stesso (cfr Lc 23,35.36), senza pensare agli altri. In nome di Gesù, non capiti più nella Chiesa di fare così. Gesù sia annunciato come Egli desidera, nella libertà e nella carità, e ogni persona crocifissa che incontriamo non sia per noi un caso da risolvere, ma un fratello o una sorella da amare, carne di Cristo da amare. La Chiesa, Corpo di Cristo, sia corpo vivente di riconciliazione!

La stessa parola riconciliazione è praticamente sinonimo di Chiesa. Il termine, infatti, significa “fare di nuovo un concilio”. La Chiesa è la casa dove conciliarsi nuovamente, dove riunirsi per ripartire e crescere insieme. È il luogo dove si smette di pensarsi come individui per riconoscersi fratelli guardandosi negli occhi, accogliendo le storie e la cultura dell’altro, lasciando che la mistica dell’insieme, tanto gradita allo Spirito Santo, favorisca la guarigione della memoria ferita. Questa è la via: non decidere per gli altri, non incasellare tutti all’interno di schemi prestabiliti, ma mettersi davanti al Crocifisso e davanti al fratello per imparare a camminare insieme. Questa è la Chiesa e questo sia: il luogo dove la realtà è sempre superiore all’idea. Questa è la Chiesa e questo sia: non un insieme di idee e precetti da inculcare alla gente, ma una casa accogliente per tutti! Questo è la Chiesa e questo sia: un tempio con le porte sempre aperte dove tutti noi, templi vivi dello Spirito, ci incontriamo, ci serviamo e ci riconciliamo. Cari amici, i gesti e le visite possono essere importanti, ma la maggior parte delle parole e delle attività di riconciliazione avvengono a livello locale, in comunità come questa, dove le persone e le famiglie camminano fianco a fianco, giorno dopo giorno.

Pregare insieme, aiutare insieme, condividere storie di vita, gioie e lotte comuni apre la porta all’opera riconciliatrice di Dio.

C’è un’immagine conclusiva che ci può aiutare. In questo tempio, sopra l’altare e il tabernacolo, vediamo i quattro pali di una tipica tenda indigena, che ho saputo chiamarsi tepee. La tenda ha un grande significato biblico. Quando Israele camminava nel deserto, Dio dimorava in una tenda che veniva allestita ogni volta che il popolo si fermava: era la Tenda del Convegno. Ci ricorda che Dio cammina con noi e ama incontrarci insieme, in convegno, in concilio. E quando si fa uomo, il Vangelo dice, letteralmente, che “pose la sua tenda in mezzo a noi” (cfr Gv 1,14). Dio è Dio della vicinanza, in Gesù ci insegna la lingua della compassione e della tenerezza. Questo si deve cogliere ogni volta che veniamo in chiesa, dove Egli è presente nel tabernacolo, parola che significa proprio tenda. Dio dunque pianta la sua tenda tra di noi, ci accompagna nei nostri deserti: non abita in palazzi celesti, ma nella nostra Chiesa, che desidera sia casa di riconciliazione.

Gesù, crocifisso risorto, che abiti in questo tuo popolo, che desideri risplendere attraverso le nostre comunità e le nostre culture, prendici per mano e, anche nei deserti della storia, guida i nostri passi sulla via della riconciliazione. Amen.