Come ogni anno il S. Padre ha ricevuto i cardinali e i superiori della Curia romana per il tradizionale scambio di auguri natalizi e, come ci ha abituati in questa occasione, il suo discorso è stato più lungo del solito. Un’occasione “di riflessione e di verifica per ciascuno di noi”, in cui il Papa ha sottolineato l’importanza dell’umiltà ma anche la necessità di una conversione alla sobrietà e di una collaborazione senza cordate, fazioni e divisioni. Nel suo discorso augurale, il cardinale decano Re ha ricordato il viaggio del S. Padre in Iraq, così denso di significati, come pure quello che ha definito “il viaggio della preghiera” a Budapest e il “viaggio della fraternità e della comunione” in Grecia e Cipro. Ecco il discorso del Papa.
Cari fratelli e sorelle! Come ogni anno, abbiamo occasione di incontrarci a pochi giorni dalla festa del Natale. È un modo per dire “ad alta voce” la nostra fraternità attraverso lo scambio degli auguri natalizi, ma è anche un momento di riflessione e di verifica per ciascuno di noi, perché la luce del Verbo che si fa carne ci mostri sempre meglio chi siamo e la nostra missione.
Il mistero del Natale
Il mistero del Natale è il mistero di Dio che viene nel mondo attraverso la via dell’umiltà; e questo tempo sembra aver dimenticato l’umiltà, o pare l’abbia semplicemente relegata a una forma di moralismo, svuotandola della dirompente forza di cui è dotata. Ma se dovessimo esprimere tutto il mistero del Natale in una parola, penso che la parola umiltà è quella che maggiormente ci può aiutare. I Vangeli ci parlano di uno scenario povero, sobrio, non adatto ad accogliere una donna che sta per partorire. Eppure, il Re dei re viene nel mondo non attirando l’attenzione, ma suscitando una misteriosa attrazione nei cuori di chi sente la dirompente presenza di una novità che sta per cambiare la storia.
Per questo mi piace pensare e dire che l’umiltà è stata la sua porta d’ingresso e ci invita ad attraversarla. Mi viene in mente quello degli esercizi: non si può andare avanti senza umiltà e non si può andare avanti nell’umiltà senza umiliazioni, S. Ignazio ce le chiede.
La storia di Naaman
Non è facile capire cosa sia l’umiltà. Essa è il risultato di un cambiamento che lo Spirito stesso opera in noi attraverso la storia che viviamo, come ad esempio accadde a Naaman il Siro. Questo personaggio godeva, all’epoca del profeta Eliseo, di una grande fama. Era un valoroso generale dell’esercito Arameo, che aveva mostrato in più occasioni il suo valore e il suo coraggio. Ma insieme con la fama, la forza, la stima, gli onori, la gloria, quest’uomo è costretto a convivere con un dramma terribile: è lebbroso. La sua armatura, quella stessa che gli procura fama, in realtà copre un’umanità fragile, ferita, malata. Questa contraddizione spesso la ritroviamo nelle nostre vite: a volte i grandi doni sono l’armatura per coprire grandi fragilità.
Naaman comprende una verità fondamentale: non si può passare la vita nascondendosi dietro un’armatura, un ruolo, un riconoscimento sociale. Alla fine annoia. Arriva il momento, nell’esistenza di ognuno, in cui si ha il desiderio di non vivere più dietro il rivestimento della gloria di questo mondo, ma nella pienezza di una vita sincera, senza più bisogno di armature e di maschere. Questo desiderio spinge il valoroso generale Naaman a mettersi in cammino alla ricerca di qualcuno che possa aiutarlo, e lo fa a partire dal suggerimento di una schiava, una ebrea prigioniera di guerra che racconta di un Dio che è capace di guarire simili contraddizioni.
La grazia che salva è gratuita
Fatto rifornimento di argento e oro, Naaman si mette in viaggio e giunge così dinanzi al profeta Eliseo. Questi chiede a Naaman, come unica condizione per la sua guarigione, il semplice gesto di spogliarsi e lavarsi sette volte nel fiume Giordano. Niente fama, onore, oro né argento! La grazia che salva è gratuita, non è riducibile al prezzo delle cose di questo mondo. Naaman resiste a questa richiesta, gli sembra troppo banale, troppo semplice, troppo accessibile. Sembra che la forza della semplicità non avesse spazio nel suo immaginario. Ma le parole dei suoi servi lo fanno ricredere: «Se il profeta ti avesse ordinato una cosa difficile, tu non l’avresti fatta? Quanto più ora che egli ti ha detto: “Lavati, e sarai guarito”?».
Naaman si arrende, e con un gesto di umiltà “scende”, toglie la sua armatura, si cala nelle acque del Giordano, «e la sua carne tornò come la carne di un bambino; egli era guarito». La lezione è grande! L’umiltà di mettere a nudo la propria umanità, secondo la parola del Signore, ottiene a Naaman la guarigione. La storia di Naaman ci ricorda che il Natale è il tempo in cui ognuno di noi deve avere il coraggio di togliersi la propria armatura, di dismettere i panni del proprio ruolo, del riconoscimento sociale, del luccichio della gloria di questo mondo, e assumere la sua stessa umiltà.
Tutti abbiamo bisogno di essere guariti
Possiamo farlo a partire da un esempio più forte, più convincente, più autorevole: quello del Figlio di Dio, che non si sottrae all’umiltà di “scendere” nella storia facendosi uomo, facendosi bambino, fragile, avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia. Tolte le nostre vesti, le prerogative, i ruoli, i titoli, siamo tutti dei lebbrosi, tutti noi, tutti, lebbrosi bisognosi di essere guariti. Il Natale è la memoria viva di questa consapevolezza. E ci aiuta a capirla più profondamente.
Mondanità spirituale
Cari fratelli e sorelle, se dimentichiamo la nostra umanità viviamo solo degli onori delle nostre armature, ma Gesù ci ricorda una verità scomoda e spiazzante: “A cosa serve guadagnare il mondo intero se poi perdi te stesso?”. Questa è la pericolosa tentazione – l’ho richiamato altre volte – della mondanità spirituale, che a differenza di tutte le altre tentazioni è difficile da smascherare, perché coperta da tutto ciò che normalmente ci rassicura: il nostro ruolo, la liturgia, la dottrina, la religiosità.
Scrivevo nella Evangelii gaudium: «In questo contesto, si alimenta la vanagloria di coloro che si accontentano di avere qualche potere e preferiscono essere generali di eserciti sconfitti piuttosto che semplici soldati di uno squadrone che continua a combattere. Quante volte sogniamo piani apostolici espansionisti, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti! Così neghiamo la nostra storia di Chiesa, che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è “sudore della nostra fronte”.
Invece ci intratteniamo vanitosi parlando a proposito di “quello che si dovrebbe fare” – il peccato del “si dovrebbe fare” – come maestri spirituali ed esperti di pastorale che danno istruzioni rimanendo all’esterno. Coltiviamo la nostra immaginazione senza limiti e perdiamo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele».
Non vergognarci della nostra fragilità
L’umiltà è la capacità di saper abitare senza disperazione, con realismo, gioia e speranza, la nostra umanità; questa umanità amata e benedetta dal Signore. L’umiltà è comprendere che non dobbiamo vergognarci della nostra fragilità. Gesù ci insegna a guardare la nostra miseria con lo stesso amore e tenerezza con cui si guarda un bambino piccolo, fragile, bisognoso di tutto. Senza umiltà cercheremo rassicurazioni, e magari le troveremo, ma certamente non troveremo ciò che ci salva, ciò che può guarirci. Le rassicurazioni sono il frutto più perverso della mondanità spirituale, che rivela la mancanza di fede, di speranza e di carità, e diventano incapacità di saper discernere la verità delle cose.
Se Naaman avesse continuato solo ad accumulare medaglie da mettere sulla sua armatura, alla fine sarebbe stato divorato dalla lebbra: apparentemente vivo, sì, ma chiuso e isolato nella sua malattia. Egli con coraggio cerca ciò che possa salvarlo e non ciò che lo gratifica nell’immediato.
La superbia
Tutti sappiamo che il contrario dell’umiltà è la superbia. Un versetto del profeta Malachia, che mi ha toccato tanto, ci aiuta a comprendere per contrasto quale differenza vi sia tra la via dell’umiltà e quella della superbia: «Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel giorno venendo li incendierà – dice il Signore degli eserciti – in modo da non lasciar loro né radice né germoglio». Il Profeta usa un’immagine suggestiva che ben descrive la superbia: essa – dice – è come paglia. Allora, quando arriva il fuoco, la paglia diventa cenere, si brucia, scompare. E ci dice anche che chi vive facendo affidamento sulla superbia si ritrova privato delle cose più importanti che abbiamo: le radici e i germogli.
Le radici dicono il nostro legame vitale con il passato da cui prendiamo linfa per poter vivere nel presente. I germogli sono il presente che non muore, ma che diventa domani, diventa futuro. Stare in un presente che non ha più radici e più germogli significa vivere la fine. Così il superbo, rinchiuso nel suo piccolo mondo, non ha più passato né futuro, non ha più radici né germogli e vive col sapore amaro della tristezza sterile che si impadronisce del cuore come «il più pregiato degli elisir del demonio».
Ricordare e generare
L’umile vive invece costantemente guidato da due verbi: ricordare e generare, frutto dalle radici e dei germogli, e così vive la gioiosa apertura della fecondità. Ricordare significa etimologicamente “riportare al cuore”, ri-cordare. La vitale memoria che abbiamo della Tradizione, delle radici, non è culto del passato, ma gesto interiore attraverso il quale riportiamo al cuore costantemente ciò che ci ha preceduti, ciò che ha attraversato la nostra storia, ciò che ci ha condotti fin qui. Ricordare non è ripetere, ma fare tesoro, ravvivare e, con gratitudine, lasciare che la forza dello Spirito Santo faccia ardere il nostro cuore, come ai primi discepoli.
Ma affinché il ricordare non diventi una prigione del passato, abbiamo bisogno di un altro verbo: generare. L’uomo umile, la donna umile ha a cuore anche il futuro, non solo il passato, perché sa guardare avanti, sa guardare i germogli, con la memoria carica di gratitudine. L’umile genera, invita e spinge verso ciò che non si conosce. Invece il superbo ripete, si irrigidisce, la rigidità è una perversione, una perversione attuale, e si chiude nella sua ripetizione, si sente sicuro di ciò che conosce e teme il nuovo perché non può controllarlo, se ne sente destabilizzato… perché ha perso la memoria.
L’umile accetta di essere messo in discussione, si apre alla novità e lo fa perché si sente forte di ciò che lo precede, delle sue radici, della sua appartenenza. Il suo presente è abitato da un passato che lo apre al futuro con speranza. A differenza del superbo, sa che né i suoi meriti né le sue “buone abitudini” sono il principio e il fondamento della sua esistenza; perciò è capace di avere fiducia. Il superbo non ne ha.
Gesù apre la strada
Tutti noi siamo chiamati all’umiltà perché siamo chiamati a ricordare e a generare, siamo chiamati a ritrovare il rapporto giusto con le radici e con i germogli. Senza di essi siamo ammalati, e destinati a scomparire. Gesù, che viene nel mondo attraverso la via dell’umiltà, ci apre una strada, ci indica un modo, ci mostra una meta. Cari fratelli e sorelle, se è vero che senza umiltà non si può incontrare Dio, e non si può fare esperienza di salvezza, è altrettanto vero che senza umiltà non si può incontrare nemmeno il prossimo, il fratello e la sorella che ci vivono accanto.
Umiltà e cammino sinodale
Lo scorso 17 ottobre abbiamo dato inizio al percorso sinodale che ci vedrà impegnati per i prossimi due anni. Anche in questo caso, solo l’umiltà può metterci nella condizione giusta per poterci incontrare e ascoltare, per dialogare e discernere. Per pregare insieme, come indicava il cardinale decano. Se ognuno rimane chiuso nelle proprie convinzioni, nel proprio vissuto, nel guscio del suo solo sentire e pensare, è difficile fare spazio a quell’esperienza dello Spirito che, come dice l’Apostolo, è legata alla convinzione che siamo tutti figli di «un solo Dio, Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti».
La tentazione del clericalismo
“Tutti” non è una parola fraintendibile! Il clericalismo che, come tentazione perversa, serpeggia quotidianamente in mezzo a noi, ci fa pensare sempre a un Dio che parla solo ad alcuni, mentre gli altri devono solo ascoltare ed eseguire. Il Sinodo cerca di essere l’esperienza di sentirci tutti membri di un popolo più grande: il Santo Popolo fedele di Dio, e pertanto discepoli che ascoltano e, proprio in virtù di questo ascolto, possono anche comprendere la volontà di Dio, che si manifesta sempre in maniera imprevedibile.
La Curia deve dare testimonianza
Sarebbe però sbagliato pensare che il Sinodo sia un evento riservato alla Chiesa come entità astratta, distante da noi. La sinodalità è uno stile a cui dobbiamo convertirci innanzitutto noi che siamo qui e che viviamo l’esperienza del servizio alla Chiesa universale attraverso il lavoro nella Curia romana. La Curia non è solo uno strumento logistico e burocratico per le necessità della Chiesa universale, ma è il primo organismo chiamato alla testimonianza, e proprio per questo acquista sempre più autorevolezza ed efficacia quando assume in prima persona le sfide della conversione sinodale alla quale anch’essa è chiamata.
Conversione alla sobrietà, no alle cordate
L’organizzazione che dobbiamo attuare non è di tipo aziendale, ma di tipo evangelico. Per questo, se la Parola di Dio ricorda al mondo intero il valore della povertà, noi, membri della Curia, per primi dobbiamo impegnarci in una conversione alla sobrietà. Se il Vangelo annuncia la giustizia, noi per primi dobbiamo cercare di vivere con trasparenza, senza favoritismi e cordate. Se la Chiesa percorre la via della sinodalità, noi per primi dobbiamo convertirci a uno stile diverso di lavoro, di collaborazione, di comunione. E questo è possibile solo attraverso la strada dell’umiltà. Senza umiltà non potremo fare questo.
Tre parole chiave
Durante l’apertura dell’assemblea sinodale ho usato tre parole-chiave: partecipazione, comunione e missione. Nascono da un cuore umile, senza umiltà non si può fare né partecipazione, né comunione, né missione. Queste parole sono le tre esigenze che vorrei indicare come stile di umiltà a cui tendere qui nella Curia. Tre modi per rendere la via dell’umiltà una via concreta da mettere in pratica.
Partecipazione
Innanzitutto, la partecipazione. Essa dovrebbe esprimersi attraverso uno stile di corresponsabilità. Certamente nella diversità di ruoli e ministeri le responsabilità sono diverse, ma sarebbe importante che ognuno si sentisse partecipe, corresponsabile del lavoro senza vivere la sola esperienza spersonalizzante dell’esecuzione di un programma stabilito da qualcun altro. Rimango sempre colpito quando nella Curia incontro la creatività, e non di rado essa si manifesta soprattutto lì dove si lascia e si trova spazio per tutti, anche a chi gerarchicamente sembra occupare un posto marginale.
Ringrazio per questi esempi, che li trovo, e mi piace, e vi incoraggio a lavorare affinché siamo capaci di generare dinamiche concrete in cui tutti sentano di avere una partecipazione attiva nella missione che devono svolgere. L’autorità diventa servizio quando condivide, coinvolge e aiuta a crescere.
Comunione
La seconda parola è comunione. Essa non si esprime con maggioranze o minoranze, ma nasce essenzialmente dal rapporto con Cristo. Non avremo mai uno stile evangelico nei nostri ambienti se non rimettendo Cristo al centro. Non questo partito, quell’altro, no, Cristo al centro. Molti di noi lavorano insieme, ma ciò che fortifica la comunione è poter anche pregare insieme, ascoltare insieme la Parola, costruire rapporti che esulano dal semplice lavoro e rafforzano i legami di bene fra noi, aiutandoci a vicenda. Senza questo rischiamo di essere soltanto degli estranei che collaborano, dei concorrenti che cercando di posizionarsi meglio o, peggio ancora, lì dove si creano dei rapporti, essi sembrano prendere più la piega della complicità per interessi personali dimenticando la causa comune che ci tiene insieme.
La complicità crea fazioni e nemici
La complicità crea divisioni, fazioni e nemici; la collaborazione esige la grandezza di accettare la propria parzialità e l’apertura al lavoro in gruppo, anche con quelli che non la pensano come noi. Nella complicità si sta insieme per ottenere un risultato esterno. Nella collaborazione si sta insieme perché si ha a cuore il bene dell’altro e, pertanto, di tutto il Popolo di Dio che siamo chiamati a servire. Non dimentichiamo il volto concreto delle persone, non dimentichiamo le nostre radici, il volto concreto di coloro che sono stati i nostri primi maestri nella fede. Paolo diceva a Timoteo ricorda tua mamma, tua nonna…
La prospettiva della comunione implica, nello stesso tempo, di riconoscere la diversità che ci abita come dono dello Spirito Santo. Ogni volta che ci allontaniamo da questa strada e viviamo comunione e uniformità come sinonimi, indeboliamo e mettiamo a tacere la forza vivificante dello Spirito Santo in mezzo a noi. L’atteggiamento di servizio ci chiede, vorrei dire esige, la magnanimità e la generosità per riconoscere e vivere con gioia la ricchezza multiforme del Popolo di Dio; e senza umiltà questo non è possibile.
A me fa bene rileggere l’inizio della Lumen Gentium, quei numeri 8, 12… il santo popolo fedele di Dio: è ossigeno per l’anima riprendere queste verità.
Missione
La terza parola è missione. Essa è ciò che ci salva dal ripiegarci su noi stessi. Chi è ripiegato su sé stesso «guarda dall’alto e da lontano, rifiuta la profezia dei fratelli, squalifica chi gli pone domande, fa risaltare continuamente gli errori degli altri ed è ossessionato dall’apparenza. Ha ripiegato il riferimento del cuore all’orizzonte chiuso della sua immanenza e dei suoi interessi e, come conseguenza di ciò, non impara dai propri peccati né è aperto al perdono. Questi sono i due segnali di un chiuso: non impara dai propri peccati né è aperto al perdono.
È una tremenda corruzione con apparenza di bene. Bisogna evitarla mettendo la Chiesa in movimento di uscita da sé, di missione centrata in Gesù Cristo, di impegno verso i poveri». Solo un cuore aperto alla missione fa sì che tutto ciò che facciamo ad intra e ad extra sia sempre segnato dalla forza rigeneratrice della chiamata del Signore.
Passione per i poveri, materiali e spirituali
E la missione sempre comporta passione per i poveri, cioè per i “mancanti”: coloro che “mancano” di qualcosa non solo in termini materiali, ma anche spirituali, affettivi, morali. Chi ha fame di pane e chi ha fame di senso è ugualmente povero. La Chiesa è invitata ad andare incontro a tutte le povertà, ed è chiamata a predicare il Vangelo a tutti perché tutti, in un modo o in un altro, siamo poveri, siamo mancanti. Ma anche la Chiesa va loro incontro perché essi ci mancano: ci manca la loro voce, la loro presenza, le loro domande e discussioni.
La persona con cuore missionario sente che suo fratello le manca e, con l’atteggiamento del mendicante, va a incontrarlo. La missione ci rende vulnerabili, ci aiuta a ricordare la nostra condizione di discepoli e ci permette di riscoprire sempre di nuovo la gioia del Vangelo
Partecipazione, missione e comunione sono i caratteri di una Chiesa umile, che si mette in ascolto dello Spirito e pone il suo centro fuori da sé stessa. Diceva Henri de Lubac: «Agli occhi del mondo la Chiesa, come il suo Signore, ha sempre l’aspetto della schiava. Esiste quaggiù in forma di serva. […] Essa non è né un’accademia di scienziati, né un cenacolo di raffinati spirituali, né un’assemblea di superuomini. È anzi esattamente il contrario. S’affollano gli storpi, i deformi, i miserabili di ogni sorta, fanno ressa i mediocri […]; è difficile, o piuttosto impossibile, all’uomo naturale, fino a quando non sia intervenuto in lui una radicale trasformazione, riconoscere in questo fatto il compimento della kenosi salvifica, la traccia adorabile dell’umiltà di Dio».
Lasciarsi evangelizzare dall’umiltà
In conclusione, desidero augurare a voi e a me per primo, di lasciarci evangelizzare dall’umiltà del Natale, del presepe, della povertà ed essenzialità in cui il Figlio di Dio è entrato nel mondo. Persino i Magi, che certamente possiamo pensare venissero da una condizione più agiata di Maria e di Giuseppe o dei pastori di Betlemme, quando si trovano al cospetto del Bambino si prostrano. Non è solo un gesto di adorazione, è un gesto di umiltà. I Magi si mettono all’altezza di Dio prostrandosi sulla nuda terra.
Questa kenosi, questa discesa, questa sincatabasi, è la stessa che Gesù compirà l’ultima sera della sua vita terrena, quando «si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto». Lo sgomento che suscita tale gesto provoca la reazione di Pietro, ma alla fine Gesù stesso dona ai suoi discepoli la chiave di lettura giusta: «Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi».
La lezione del Natale
Cari fratelli e sorelle, facendo memoria della nostra lebbra, rifuggendo le logiche della mondanità che ci privano di radici e di germogli, lasciamoci evangelizzare dall’umiltà del Bambino Gesù. Solo servendo e solo pensando al nostro lavoro come servizio possiamo davvero essere utili a tutti. Siamo qui – io per primo – per imparare a stare in ginocchio e adorare il Signore nella sua umiltà, e non altri signori nella loro vuota opulenza.
Siamo come i pastori, siamo come i Magi, siamo come Gesù. Ecco la lezione del Natale: l’umiltà è la grande condizione della fede, della vita spirituale, della santità. Possa il Signore farcene dono a partire dalla primordiale manifestazione dello Spirito dentro di noi: il desiderio. Ciò che non abbiamo, possiamo cominciare almeno a desiderarlo. E chiedere al Signore la grazia di desiderare, di diventare uomini e donne di grande desiderio. E il desiderio è già lo Spirito all’opera dentro ciascuno di noi. Buon Natale a tutti! E vi chiedo di pregare per me.
Il dono del Papa alla Curia
Al termine il S. Padre ha donato dei libri: il primo di mons. Armando Matteo, sottosegretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, “Convertire Peter Pan”, il destino della fede in questa società dell’eterna giovinezza. Il secondo sui personaggi secondari o dimenticati della Bibbia, di Luigi Maria Epicoco “La pietra scartata – Quando i dimenticati si salvano”. “Leggendo questo mi è venuta in mente la storia di Naaman” ha detto il Pontefice. Infine, il libro di un nunzio apostolico, Fortunatus Nwachukwu (attuale Osservatore permanente della S. Sede presso l’Onu a Ginevra), che è una riflessione sul chiacchiericcio.