Rosario Livatino, proclamato ieri beato ad Agrigento, in Sicilia, era un giovane magistrato di 37 anni ucciso con un agguato a colpi di pistola, sulla strada statale 640 Agrigento-Caltanissetta, venerdì 21 settembre 1990, dalla mafia del territorio di Agrigento, chiamata Stidda, per il suo impegno umano, cristiano e professionale contro ogni forma di ingiustizia e contro la mafia.
Richiamando al Regina Coeli la beatificazione di Livatino, Papa Francesco ne ha lodato l’impegno di “martire della giustizia e della fede.”
“Nel suo servizio alla collettività come giudice integerrimo, che non si è lasciato mai corrompere,” Francesco dice, “si è sforzato di giudicare non per condannare ma per redimere. Il suo lavoro lo poneva sempre “sotto la tutela di Dio”; per questo è diventato testimone del Vangelo fino alla morte eroica.”
“Il suo esempio sia per tutti, specialmente per i magistrati, stimolo ad essere leali difensori della legalità e della libertà,” ha concluso Francesco chiedendo “un applauso al nuovo Beato!”
Alla storia di Livatino il giornalista, docente e scrittore siciliano Marco Pappalardo ha appena dedicato un agile libro, dal titolo “Non chiamatelo ragazzino. Rosario Livatino, un giudice contro la mafia”, con l’intento di raccontare soprattutto ai bambini e agli adolescenti la figura del nuovo martire della Chiesa cattolica.
Rosario Livatino è stato “un gigante della verità”, ha detto di lui pochi giorni fa il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana: “un uomo che ha incarnato il Vangelo delle Beatitudini perché egli aveva ‘fame e sete di giustizia’. Con la mafia non si convive! Fra la mafia e il Vangelo non può esserci alcuna convivenza o tantomeno connivenza”.
E anche papa Francesco, firmando l’introduzione ad un altro libro dedicato al magistrato martire della mafia, aveva sottolineato che i mafiosi sono “gli Erodi del nostro tempo” e che ogni forma di mafia è una “intrinseca negazione del Vangelo, a dispetto della secolare ostentazione di santini, di statue sacre costrette ad inchini irriguardosi, di religiosità sbandierata quanto negata”.
Nelle pagine di Marco Pappalardo parlano di Livatino la sua città, alcuni oggetti personali, i luoghi di studio e di lavoro, i simboli della fede e della giustizia. Con questo espediente l’autore tratteggia un ritratto avvincente di un cristiano di profondissima fede e un magistrato dall’altissimo senso del dovere.
Ecco di seguito la conversazione di Exaudi con Pappalardo:
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EXAUDI: Perché Rosario Livatino è soprannominato – come molti sanno – il “giudice ragazzino”, pur avendo 38 anni al momento della morte?
MARCO PAPPALARDO: La definizione nasce dall’allora Presidente della Repubblica Italiana Cossiga, che usò questa perifrasi in modo infelice e fuori luogo; poi l’ottimo libro di Nando Dalla Chiesa – usandola provocatoriamente come titolo di un suo libro – dimostrò quanto Livatino, certamente giovane ma non “ragazzino”, era più che all’altezza suo ruolo. Inoltre, vogliamo pensare che la “Stidda”, che lo ha ucciso, abbia avuto paura di un “ragazzino”? E’ evidente che i loro timori, al contrario, erano tantissimi!
EXAUDI: Il tuo libro si intitola appunto “Non chiamatelo ragazzino”… perché hai scelto questo titolo?
MARCO PAPPALARDO: Il titolo è provocatorio e nasce da quanto detto sopra. In queste pagine parlano di lui e per lui la sua città, alcuni oggetti personali, i luoghi di studio e di lavoro, i simboli della fede e della giustizia, dei testimoni. Raccontano – riportando in corsivo le parole del coraggioso magistrato – una vita semplice ma intensa, una professione vissuta in modo coerente, un uomo dalla profondissima fede e dall’altissimo senso del dovere. In ogni capitolo, poi, si trovano alla fine alcune brevi riflessioni per aiutare il lettore a comprendere che Livatino oggi è un modello vincente per essere donne e uomini di speranza, nelle piccole cose di ogni giorno e nell’impegno contro ogni mafia.
EXAUDI: Quando Rosario Livatino fu ucciso, con un agguato mentre guidava la sua auto in un punto disabitato lungo la strada fra Canicattì e Agrigento, gli assassini furono visti da un unico testimone oculare, che da allora vive sotto scorta e ha cambiato nome. Ma è così alto il prezzo del rompere l’omertà attorno ai delitti di mafia?
MARCO PAPPALARDO: Sì, il prezzo è altissimo e trent’anni fa certamente lo era ancor di più, poiché le misure di protezione non erano come quelle di oggi. Denunciare e rompere il muro di omertà sono, però, le uniche vie per dimostrare alla mafia che è fallibile, che il coraggio di uno vince la paura di tanti, che il bene comune rompe i meccanismi meschini dell’individualismo. Piero Nava, il testimone oculare dell’assassinio, ha affermato: «Questo è il mondo brutto nel quale viviamo, ma perché? Perché non c’è un’educazione, perché uno non si sa prendere le responsabilità oppure ha paura di prendersi delle responsabilità perché non si sente tutelato. Anch’io non mi sono sentito tutelato, però avevo la forza in me. Quante volte hanno cercato di impormi qualcosa, ma ho detto: “No, sono sulla sponda buona, decido io se lo voglio fare o no, non decidi tu per me, io sono dalla parte giusta, faccio parte dei buoni, tira la riga”. Non tutti però hanno questa forza, probabilmente altri testimoni non l’hanno avuta, forse non avevano una famiglia come l’avevo io, non avevano la cultura che avevo io, non avevano la storia che avevo io».
EXAUDI: Sono molti i magistrati che la mafia ha fatto uccidere, per liberarsi personaggi scomodi per i suoi interessi illegali. Ma i magistrati, fino ad oggi, hanno tutti combattuto veramente la mafia?
MARCO PAPPALARDO: La beatificazione di Livatino è scomoda per quei giudici che dinanzi ai mafiosi e ai loro loschi traffici chiudono un occhio, si girano dall’altro lato, non vanno fino in fondo nelle indagini, alleggeriscono le sentenze, disonorano la toga. Per tutti gli altri, la maggior parte onesti, deve essere un modello e uno stimolo a fare di più e meglio!
EXAUDI: La chiesa proclama martiri, e dunque beati, solo gli uomini e le donne uccisi “in odium fidei”. Siamo abituati a pensare ai martiri dei regimi totalitari, delle persecuzioni dei cristiani, delle grandi tragedie della storia… Non siamo abituati a pensare ai martiri della mafia. Ma la mafia “odia” veramente la Chiesa e la fede cristiana?
MARCO PAPPALARDO: La dimostrazione è proprio la dichiarazione del martirio in “odium fidei” come nel caso del Beato Padre Pino Puglisi. Dal punto di vista religioso e cattolico non esiste a mio avviso il “credente antimafia” (o il prete antimafia), poiché ogni donna e uomo di Chiesa sono o devono essere contro chi ruba e uccide la dignità delle persone, il futuro della società e la bellezza del creato. Dunque, il Vangelo è contro la mafia e i mafiosi si mettono da soli fuori dalla comunione della Chiesa finché non si pentono e convertono con i fatti, non solo a parole.
EXAUDI: Perché è importante, secondo te, far conoscere la figura di Rosario Livatino ai giovani di oggi? il tuo libro si rivolge proprio a loro…
MARCO PAPPALARDO: I bambini, i ragazzi, i giovani sono il presente ed il futuro della nostra società ed è necessario porre dinanzi a loro, con il linguaggio adeguato, temi e storie forti. Non vivono su un altro pianeta, dunque la consapevolezza dei problemi e la possibilità di affrontarli devono essere posti loro gradualmente. Da adulti scopriremo che c’è più consapevolezza e responsabilità di quanto pensiamo, ma serve dare “pane duro” e il giusto accompagnamento in ogni contesto educativo. Il mio libro è dunque adatto alla lettura personale, in famiglia, a scuola, in parrocchia, in oratorio.
EXAUDI: Tu sei un insegnante, lavori a stretto contatto con ragazzi molto giovani. Qual è la responsabilità della scuola nell’educare i giovani a respingere la cultura della mafia?
MARCO PAPPALARDO: Il problema non è solo la mafia e la lotta contro di essa, ma anche quella contro la mentalità mafiosa diffuso ovunque; ci sono contesti, spesso quelli periferici, che soffrono particolarmente ed in modo evidente di questa piaga, tuttavia se la criminalità organizzata è così forte, lo è per la connivenza di molti insospettabili. Oggi non manca nelle scuole il riferimento costante alla lotta contro le mafie e all’impegno per la giustizia. Come insegnanti abbiamo la missione di porre dei semi, consapevoli spesso che i frutti saranno raccolti da altri. In ogni giovane di oggi ci può essere il “giudice Livatino” di domani!
EXAUDI: E quale è invece la responsabilità della Chiesa? spesso la mafia e i mafiosi ostentano sentimenti religiosi.
MARCO PAPPALARDO: La beatificazione di Rosario Livatino è scomoda – come ho detto prima – perché il messaggio che ne deriva è forte, nuovo e chiaro: un giudice “credente credibile” agli onori degli altari. È scomoda per alcuni uomini di Chiesa, che al Vangelo di Gesù hanno sostituito quello del denaro, del potere, della viltà, del “meglio non esporsi”, del “se la sono cercata preti come Puglisi e Diana”. È scomoda per i cristiani tiepidi, chiusi nelle sacrestie, forti delle devozioni e delle cerimonie, immersi nei propri ruoli, lontani dalle “periferie esistenziali”, con un Cristo che si son fatti per conto proprio e una religiosità costruita ad hoc. Così com’è scomoda per i capi mafia e gli affiliati, vecchi e nuovi, a cui vengono sbattute in faccia le loro debolezze, paure, sconfitte, marginalità, falsa religiosità e vuote devozioni.