La presentazione del libro “Il dono e il discernimento”, edito da Rizzoli, è stata l’occasione per un’intervista esclusiva di Exaudi con Mariella Enoc, dal febbraio 2015 presidente del Cda dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù. Un incarico che le è stato riconfermato nel gennaio scorso fino al 2024. Il libro è una conversazione con il padre gesuita Francesco Occhetta, nella casa piemontese della manager (entrambi sono originari di Novara).
Una casa che si affaccia sul lago Maggiore, non lontano da Stresa, in cui, insieme ai suoi genitori, ha trascorso gli ultimi anni della sua vita anche il vescovo emerito di Novara, mons. Aldo Del Monte, al quale erano molto legati sia Enoc che Occhetta. Un testo che “non è una biografia” come ha raccontato padre Occhetta durante la presentazione moderata da don Dario Edoardo Viganò, ma una “collana di perle intessuta una dopo l’altra con vari livelli: spirituale, umano, etico, antropologico, sociale, manageriale”.
Mariella Enoc prima di arrivare al Bambino Gesù ha fatto molto altro, soprattutto in ambienti laici dove non ha mai nascosto il suo essere cattolica praticante ed è stata sempre molto stimata. Com’è il rapporto di un manager con la fede?
Io sono una persona, quindi la mia fede e quello che io faccio sono la stessa cosa. Il mio fare è ispirato dalla mia fede. Non c’è diversità perché la mia fede mi aiuta anche a fare alcune scelte, ecco perché il titolo del libro è Il dono e il discernimento. Ho sempre fatto il manager a modo mio, anche quando lavoravo nel settore profit, per multinazionali quotate in borsa. Ho sempre detto agli azionisti che se mi volevano le condizioni le mettevo io. Perciò non ho mai avuto problemi di rapporti tra il vissuto della fede e il vissuto della mia professione.
Com’è lavorare a contatto con il S. Padre?
Ho una profonda sintonia con lui, con il suo magistero, quindi anche al Bambino Gesù ho dato un po’ questa ispirazione. Prima di tutto una grande attenzione alla sostenibilità dell’ospedale. Gli ospedali devono essere sostenibili. Questo anche il Papa me lo ricorda. Questa sostenibilità poi serve per innovare, per fare ricerca, e anche per la solidarietà. Il mio primo compito è renderlo sostenibile per poter fare quello che desidero che l’ospedale faccia, secondo la missione che ha. E devo dire che è impegnativo. Ma dal S. Padre ho imparato anche un’altra cosa.
Quale?
Di fronte alla sofferenza bisogna curare tutto l’uomo, che ha una dimensione spirituale, anche se di religione diversa o non credente. E questo non si fa dicendo frasi di compassione “pretesche”. Quando il Papa è venuto in visita alla nostra sede di Palidoro, in tre ore non l’ho mai sentito dire parole come ‘coraggio, vedrà…’. Uscendo da una camera gli spiegai che i genitori non volevano accettare la malattia del figlio. E lui mi rispose: ‘Perché, è facile accettarla?’. Comunicare empatia significa essere tutt’uno con l’altro.
Come nasce l’idea di questo libro?
È stata una truffa di padre Occhetta (risponde ridendo, ndr). Siccome siamo profondamente amici da molti anni (siamo della stessa diocesi, poi ci siamo un po’ persi e ci siamo rincontrati quando siamo venuti a Roma), d’estate a casa mia io raccontavo (o meglio, mi faceva raccontare…) e lui scriveva. Quando poi è nato il libro ho avuto molte difficoltà a lasciarlo pubblicare, c’è stata una forte resistenza per alcuni mesi.
È stato molto signore, mi ha detto ‘è un dono che ti faccio, non preoccuparti anche se non lo pubblichiamo’. Poi c’è stato un po’ di spinta da parte di altre persone e ho accettato. Ma mi è costata molta fatica, come temperamento non amo molto espormi… ho fatto tante cose ma in una maniera abbastanza riservata. Da una parte è stato facile perché padre Francesco per me è una persona di riferimento, anche spirituale, però vederlo scritto è stato più complicato. Ho parlato con il gruppo dei suoi giovani, mi hanno detto che dovevo considerarla una testimonianza di una lunga vita e quindi questi pudori sono un po’ eccessivi. Sono un po’ i pudori che abbiamo noi cattolici…”
Cioè?
In fondo pensiamo che l’umiltà sia stare coperti… riconosco in questo un po’ di non positività dell’educazione cattolica (risponde ancora sorridendo, ndr).
La solidarietà è una delle “missioni” dell’ospedale. Può farci un esempio anche alla luce della pandemia che stiamo vivendo?
In questo anno e mezzo abbiamo messo su, insieme al responsabile della comunicazione, una piattaforma in cinque lingue per cui abbiamo potuto continuare la formazione del personale nei Paesi in via di sviluppo, sia con la parola che con le immagini. Ora in lingua araba stiamo formando circa 150 infermieri di 5 ospedali libici, in collaborazione con l’Oms. In Libia c’erano molti infermieri stranieri che sono andati via con la guerra e devono formare i loro. Appena possibile faremo qualche missione o verranno loro da noi, come facciamo per i cinesi o in qualche caso con la Tanzania. Devo dire che l’uso di questa piattaforma è stato importantissimo perché non abbiamo mai smesso di fare formazione. Il valore della digitalizzazione è investire anche su questo.
La sanità cattolica non se la passa molto bene.
Soffro molto a vedere ridotti così male gli ospedali cattolici. Insieme all’educazione sono un grande dono della Chiesa che stiamo dimenticando, e non solo in Italia. In Nicaragua, per esempio, c’è un ospedale della S. Sede che forse passerà al governo, almeno non chiuderà. Bisogna ritrovare lo spirito di quello che facciamo. Gli ospedali hanno rincorso il pubblico nel fare attività che rendono di più ma non basta.
Penso ai malati psichiatrici. Non ce ne prendiamo cura a sufficienza, è vero che è una cura che rende poco, ma bisogna prendersene carico. È bello dire teniamo gli anziani a casa ma non possiamo imporlo, altrimenti diventa ideologia. Si cura conoscendo le persone, capendo di cosa hanno bisogno. Salvare un carisma non è tornare all’antico ma riproporlo oggi. Il Cottolengo nell’800 andava benissimo ma oggi cosa farebbe? Io difendo il Bambino Gesù con le unghie e coi denti, stiamo facendo sforzi enormi per dimostrare che è sostenibile, è una sfida di cui sono forse anche troppo orgogliosa. Però non posso perderlo, mi sta troppo a cuore”.
Per concludere, Mariella Enoc e l’Africa: il suo sogno era andare a viverci.
Ho sempre cercato l’incontro con i poveri, non solo materiali, ci sono tante povertà. Andare in Africa è forse l’unica cosa che avrei scelto e non mi è stato possibile. Una grande opportunità me l’ha offerta ancora una volta il Papa quando è tornato da Bangui. Mi ha chiesto di fare qualcosa e ci ha dato le risorse. Abbiamo realizzato un ospedale pediatrico e formato medici locali. Il sogno dell’Africa rimane, è quello che avevo a 71 anni quando sono stata chiamata a Roma. Anche stavolta non mi è stato concesso, mi è stato chiesto altro. Lo lascio come consegna. È un continente non amato, sfruttato, di cui ci occupiamo con benevolenza, dove i bambini che muoiono di fame servono a smuovere le coscienze, un continente ricchissimo e sfruttatissimo, che abbiamo benvoluto ma non amato. La carità non ha bisogno di protagonisti ma di testimoni.