Devozioni eucaristiche e spiritualità popolare

Simposio Teologico Congresso Eucaristico Internazionale “Fraternità per guarire il mondo”

Papa Francesco ha voluto convocare il 53° Congresso Eucaristico Internazionale guidato dal tema “La Fraternità per guarire il mondo”. Prima di questo grande evento ecclesiale ci siamo incontrati in un simposio teologico per approfondire il significato di questa espressione. Tuttavia, come ci dice il “Documento Base”:

“Ringraziamo Dio che questo Congresso eucaristico si svolgerà nel mezzo delle due Assemblee generali del Sinodo dei Vescovi in ​​Vaticano (ottobre 2023 – ottobre 2024), che consideriamo un segno profetico del banchetto eucaristico come centro e massima espressione della sinodalità”.

In altre parole, la nostra riflessione si colloca in una circostanza ecclesiale che non possiamo ignorare. Sia il Congresso Eucaristico Internazionale che il Simposio teologico che lo precede sono immersi in un processo a lungo termine. Il rinnovamento della Chiesa, secondo il Concilio Vaticano II, non è privilegio di pochi nella Santa Sede o in qualche Università Pontificia, ma piuttosto responsabilità condivisa di tutti nel tempo. In questo cammino, la riflessione teologica ha un ruolo unico: servire come momento riflessivo e critico dell’esperienza comunitaria di fede vissuta. In altri termini, la fede, più che trovarla in una definizione solenne, prima di trovarla in un libro, più che esplorarne accademicamente il contenuto, è esperienza di un popolo in movimento, convocato dallo Spirito, e che richiede ex – liberazione, cioè lasciare uscire ciò che era contenuto e che desiderava manifestarsi. Già il Catechismo della Chiesa Cattolica ce lo ricordava:

“Credere” è un atto ecclesiale. La fede della Chiesa precede, genera, guida e nutre la nostra fede.

Iniziare in questo modo, ricordare qualcosa di così elementare, ci corregge tutti. La fede non è un’esperienza di “vita privata”, meramente individuale. La fede è un dono che si costruisce in modo del tutto speciale dentro il nostro “io”. Scopriamo la certezza della fede, grazie al “noi”, cioè grazie alla comunità che ci precede. E così, nel “noi” ecclesiale, il nostro “io” è riconosciuto come membro di un evento che lo supera: Dio, che è comunione di Persone, entra nella Storia, diventa nostro Fratello e ci chiama a vivere come “Popolo” di Dio”, cioè come portatori di un Mistero di fraternità che a sua volta è chiamato a convocare l’intero genere umano all’unità.

Questa esperienza provoca tutto il nostro essere, compresa la ragione. Quando la ragione ricerca il significato di queste certezze e quando il contenuto di queste certezze esige la ragione, la teologia emerge come approccio sapienziale al Dio che si rivela. La teologia, quindi, non è primaria, ma si costituisce come un momento riflessivo, critico e in un certo senso contestuale, cioè è un certo “ritorno”, un certo “chiedere” e un certo “avvertimento” che ci permette di avvicinarsi al significato di ciò che è già un’esperienza che ci supera.

Comprendendo la teologia in questo modo, non è artificioso formulare il tema che ci è stato richiesto nel modo seguente: “Devozioni eucaristiche e religiosità popolare: una riflessione in tempi di sinodalità”.

In altre parole: come dovremmo pensare alle devozioni eucaristiche e alla religiosità popolare dopo la riforma sinodale della Chiesa? Quale luce getta l’ecclesiologia del Concilio Vaticano II nel inquadrare le devozioni eucaristiche e la religiosità popolare? Dobbiamo continuare a vedere la religiosità popolare come una certa “minoranza nella fede”?

Il Mistero della Chiesa si manifesta nel suo fondamento

Innanzitutto occorre chiarire brevemente cos’è la Chiesa e per questo è utile cercare di comprenderne il fondamento. Da qualche tempo alcuni si lasciarono sedurre dall’idea di Alfred Loisy dell’“invenzione” della Chiesa da parte della comunità post-pasquale. Divenne popolare la frase “Gesù annunciò il Regno di Dio e venne la Chiesa”. Questa espressione era stata preceduta da tutto un clima creato dall’esegesi protestante che tentava di mostrare che la Chiesa è sorta come frutto della fede dei discepoli dopo la risurrezione o come alternativa al fallimento del progetto messianico di Gesù. A nostro avviso la questione è ampia e complessa e non si può risolvere in poche righe. Infatti, il Concilio Vaticano II, anche se è vero che afferma che: «il mistero della santa Chiesa si manifesta nel suo fondamento», non è stato prolisso nel parlare del modo in cui la Chiesa è stata fondata. Sono solo tre i testi che menzionano la questione in maniera piuttosto concisa. Ne segnalo uno, dalla Gaudium et Sps, che è dal mio punto di vista quello fondamentale, e da cui è possibile scoprire un indizio importante:

Nata dall’amore del Padre Eterno, fondata nel tempo da Cristo Redentore, riunita nello Spirito Santo, la Chiesa ha una finalità escatologica e salvifica, che solo nel secolo futuro potrà realizzare pienamente. Essa è già presente qui sulla terra, formata da uomini, cioè da membri della città terrena che hanno la vocazione di formare nella storia del genere umano la famiglia dei figli di Dio…

Ciò significa che, se è vero che la Chiesa si configura come fenomeno umano e sociale, essa non può essere intesa se non come radicata nel mistero di Dio Uno e Trino. Dio, nel suo Mistero, origina e costituisce la Chiesa in ogni tempo. Se vogliamo cercare un atto specifico, di carattere giuridico, con cui Gesù ha fondato la Chiesa, non lo troveremo. È proprio questa assenza che invita alcuni a pensare che l’“ecclesiogenesi” avvenga nella comunità cristiana convocata dallo Spirito in risposta alla risurrezione. Tuttavia, dal nostro punto di vista, la questione è un po’ più sottile. Ha aiutato chi qui scrive molto a constatare che il nuovo Popolo di Dio è irriducibile ad una istituzione meramente umana come un’associazione civile o una comunità politica. L’irriducibilità della Chiesa va verificata personalmente attraverso l’immersione in una comunità di discepolato, curando gli aspetti metodologici che permettono di aprirsi alla possibilità che proprio in essa si verifichi, in una certa misura, la Risurrezione. Senza questa immersione personale, senza questa appartenenza, la Chiesa potrà essere studiata estrinsecamente, ma non sarà compresa nella sua specificità che la caratterizza.

Naturalmente aiuta anche scrutare attentamente la Parola di Dio e scoprire che la Chiesa è prefigurata fin dall’origine del mondo, preparata nella storia del popolo d’Israele e istituita da Gesù Cristo attraverso i suoi gesti e le sue parole: Gesù Cristo rivela il Padre, annuncia il Regno, chiama i dodici, conferisce a Pietro un ministero speciale, compie il proprio Battesimo nel Giordano, celebra l’Ultima Cena con i suoi discepoli, ecc.

Ora, san Paolo riconosce nell’assemblea dei cristiani l’Ekklesía di Dio. Un gruppo di persone dalle provenienze più diverse riconosce una nuova realtà grazie al Battesimo. Il battesimo è una connessione immediata con Gesù Cristo. Come battezzati entriamo con Cristo nella nuova creazione (cfr 2 Cor 5,17). In Galati 3,26-28 San Paolo afferma:

“In verità voi siete tutti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, perché coloro che sono stati battezzati in Cristo sono stati rivestiti di Cristo. Perciò non c’è più alcuna distinzione tra giudeo e greco, tra schiavo e libero, tra maschio e femmina, perché tutti sono uno in Cristo Gesù”.

La Trinità nella storia

Quest’ultimo è importante: siamo tutti uno in Cristo. L’Ekklesía è la dimensione visibile dell’“essere in Cristo”. Ecco perché non dovrebbe sorprenderci che l’immagine della Chiesa “corpo di Cristo” sia strettamente legata all’“essere uno in Cristo”. Gesù Cristo fa della Chiesa il suo Corpo, non mediante una nuova unione ipostatica, ma mediante il dono del suo Spirito. In altre parole: la predicazione e gli atti di Gesù, Figlio di Dio inviato dal Padre, fondano la Chiesa. L’effusione dello Spirito lo costituisce. Padre, Figlio e Spirito sono presenti nella Chiesa, che è come “misteriosa estensione della Trinità nel tempo, che non solo ci prepara alla vita unitiva, ma ci rende anche partecipi di essa”.

Il risultato di questa immersione della Trinità nella Storia è un evento, una realtà imprevista e non derivabile: esiste una comunità sociologicamente identificabile, abitata da un Mistero che la sostiene. Questo “sostegno” non scaturisce dalla coerenza etica della comunità, ma dalla gratuità immeritata di un vero atto redentivo che ci supera, cioè da un perdono incondizionato che ricostruisce la vita dall’alto e le offre un nuovo orizzonte di libertà.

Tra i tanti elementi che devono essere considerati per non incrinare il rapporto tra Gesù Cristo e la Chiesa, e per comprendere che è la Trinità ad essere coinvolta nell’essere ecclesiale, vale a mio avviso evidenziare un particolare del Vangelo di San Giovanni che non compare negli altri racconti evangelici. Questo dettaglio è stato esplorato dai Padri della Chiesa e fa parte del patrimonio sapienziale della Chiesa stessa: nei momenti finali della Passione, il cuore di Gesù viene trafitto da una lancia. «Subito ne uscì sangue e acqua» (cfr Gv 19,34), ci dice san Giovanni. Il fatto empirico del sangue distrugge ogni modo formale o astratto di concepire il cristianesimo. Il docetismo è sconfitto una volta per tutte. Gesù Cristo è veramente morto, così come è veramente nato e come è veramente risorto (cfr Gv 20,24.27). Allo stesso modo, l’acqua sgorga dal costato di Gesù Cristo per dissetare il nuovo Popolo di Dio e donargli la vita. Pertanto, la Chiesa nasce dal costato di Cristo attraverso il sangue versato da molti (Eucaristia) e l’acqua che ci dona la vita eterna (Battesimo).

Perché è importante sottolineare questo? Innanzitutto perché, da un lato, in alcuni ambienti permane ancora una concezione prevalentemente giuridica della Chiesa che fa fatica a pensare in modo più ecclesiologico. Allo stesso modo, è relativamente facile parlare della Chiesa come “communio” e/o “popolo di Dio” senza menzionare il suo fondamento trinitario. Una “communio” senza fondamento nella Trinità può essere una bella amicizia, ma mancherebbe la dinamica dell’amore delle Persone divine che partecipa alla modestia del fragile “noi” ecclesiale. D’altra parte, è anche facile affermare che la Chiesa è fondata sul battesimo, senza insistere sull’Eucaristia o viceversa. Enfatizzare il battesimo può generare simpatia nel mondo protestante, mentre enfatizzare l’Eucaristia può accentuare il ruolo del ministero ordinato, mettendo in ombra – come tante volte è accaduto – il ruolo fondamentale del sacerdozio comune. In realtà, sia il Battesimo che l’Eucaristia sono aspetti strutturanti dell’“ecclesiogenesi” e non solo sacramenti che la Chiesa “fa”.

La Chiesa, nella sua essenza, è un mistero in cui tutti questi elementi sono integrati. La Chiesa si riferisce a Gesù Cristo nella sua origine, nell’istituzione dei sacramenti e dei ministeri. Lo Spirito Santo, da parte sua, merita di essere riconosciuto, tra l’altro, in tutta l’attività carismatica – il che è enorme! –, nell’assistenza indefettibile alla Chiesa, al Papa e ai concili. In questo modo la Chiesa sarà sempre rinnovata a partire e attraverso l’Eucaristia e, in questo senso, avrà un fondamento cristologico. Da parte sua, la Pneumatologia apporterà all’Ecclesiologia l’importante dimensione della “comunione”.

L’Eucaristia fa la Chiesa e la Chiesa fa l’Eucaristia

Come si instaura allora il rapporto tra il corpo di Cristo e la comunità ecclesiale? Possiamo davvero affermare che “Ecclesia de Eucaristia vivit?” San Paolo stabilisce, attraverso la Cena del Signore, uno stretto legame tra il corpo di Gesù Cristo, appeso “per noi” sulla croce, e la comunità ecclesiale descritta nei termini del “corpo di Cristo”. Tra i vari testi paolini che possono aiutarci ad apprezzare questo, ne segnalo uno tratto dalla I lettera ai Corinzi:

“Il calice della benedizione, non lo benediciamo per entrare in comunione (koinonia) con il sangue di Cristo? E il pane che spezziamo, non è fatto per entrare in comunione (koinonia) con il corpo di Cristo? Perché se c’è un solo pane e tutti partecipiamo di quell’unico pane, pur essendo molti, tutti formiamo un solo corpo”. (1 Cor 10,16-17).

La Cena del Signore è associata all’idea di Chiesa. “Koinonia” significa comunione e partecipazione all’unico pane che determina la Chiesa come corpo di Cristo. La Chiesa, in questo modo, è un’assemblea. Si tratta però di un’assemblea chiamata a creare unità, senza escludere. San Paolo già a suo tempo denunciava le forme perverse di celebrazione eucaristica, in cui alcuni vengono privilegiati, lasciando fuori gli altri (cfr 1 Cor 11,17-34). In altre parole, celebrare l’Eucaristia, ovviamente, significa consacrare le specie del pane e del vino, implica il memoriale della morte e risurrezione di Gesù Cristo! Ma celebrare l’Eucaristia significa anche che come Chiesa siamo chiamati a vivere la più grande unità nella carità.

In altre parole, dal mio punto di vista, si è verificato talvolta un indebolimento del legame tra Eucaristia e Chiesa e uno sviluppo della pietà eucaristica focalizzata unilateralmente sulla Presenza reale, nonostante San Tommaso d’Aquino affermi chiaramente con riguardo alla Eucaristia che “la realtà (res) di questo sacramento è l’unità del corpo mistico”. Ciò significa che l’Eucaristia, che è la vera presenza reale-sostanziale di Gesù Cristo, rimanda anche all’unità che tutti siamo chiamati a vivere nella Chiesa.

In questo modo possiamo constatare che è vero che l’Eucaristia fa la Chiesa, ma anche che la Chiesa fa l’Eucaristia. Questa circolarità non deve disturbarci. L’unicità del Corpo eucaristico del Signore implica l’unicità del suo Corpo mistico. Eucaristia e Chiesa sono forme della presenza sacramentale di Cristo nella storia. Entrambi dipendono, cioè “dipendono” dal sacrificio di Gesù Cristo sulla Croce, che è l’evento che ha assoluta priorità ontologica. Grazie al fatto che Lui ci ha amati per primo, grazie al fatto che Gesù Cristo ci precede, possiamo riconoscere l’Eucaristia all’interno della circolarità menzionata come fenomeno causale primario. Eppure l’Eucaristia, insisto, non è solo la presenza reale di Gesù Cristo, ma anche la fonte della reciproca interrelazione di tutti i membri della Chiesa e della loro peculiare unità.

La sinodalità come “reciprocità necessaria”

L’unità scaturisce dall’unico pane condiviso e dalla comune dignità battesimale che si realizza attraverso rapporti di reciproco servizio. San Paolo è molto chiaro a questo riguardo:

«Come infatti abbiamo molte membra in un solo corpo, e non tutte le membra hanno la stessa funzione, così noi, essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo, ma ciascuna membra è al servizio delle altre membra» (Rm 12,4-). 5).

Ora, il servizio ministeriale non è solo complementare, ma soprattutto reciproco. San Giovanni Crisostomo sembra notare la “reciprocità” di ciascuna identità ministeriale all’interno della Chiesa:

“Cos’è infatti il ​​pane? È il corpo di Cristo. In cosa si trasformano coloro che lo ricevono? Nel corpo di Cristo; ma non molti corpi, ma un corpo solo. Infatti, poiché il pane è uno solo, sebbene sia composto di tanti chicchi di grano e questi si trovano in esso, sebbene non si vedano, in modo tale che la sua diversità scompare in virtù della sua perfetta fusione; Allo stesso modo anche noi siamo uniti reciprocamente tra noi e, tutti insieme, con Cristo”.

Ma la Costituzione Lumen gentium va oltre. È necessaria la reciprocità di ciascun membro della Chiesa:

«Anche se alcuni, per volontà di Cristo, sono stati costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori per altri, esiste tra tutti un’autentica uguaglianza nella dignità e nell’azione comune a tutti i fedeli per edificare il Corpo dei Cristo. Infatti la distinzione che il Signore ha stabilito tra i sacri ministri e il resto del Popolo di Dio porta con sé la solidarietà, poiché i Pastori e gli altri fedeli sono legati tra loro da reciproca necessità. (…) In questo modo ciascuno darà una molteplice testimonianza di mirabile unità nel Corpo di Cristo”.

È meraviglioso catturare la freschezza e la semplicità di questo potente testo. Nella Chiesa non c’è spazio per l’esclusione, perché ciascun christifideles ha bisogno dell’altro per realizzare la propria vocazione. Questo tessuto relazionale, questa “esigenza reciproca”, costituisce l’identità di ogni ministero. In altre parole: ogni fedele cristiano si definisce nell’unico Corpo di Cristo per il servizio che rende agli altri.

Nella celebrazione dell’Eucaristia ciò risulta particolarmente evidente:

«Il sacramento dell’Eucaristia è, infatti, il luogo per eccellenza della Nuova Alleanza tra la Trinità e l’umanità, il luogo del mirabile scambio tra l’offerta del Figlio di Dio pro nobis, attraverso la quale egli porta con sé tutta l’umanità al Padre; offerta che il Padre accoglie e alla quale risponde effondendo in abbondanza lo Spirito d’Amore nella comunione eucaristica. Ciò costituisce poi la communio sanctorum nella comunità ecclesiale riunita. In sintesi, attraverso la mediazione dei ministri che amministrano il sacramento e attraverso l’offerta dei battezzati che si uniscono e partecipano all’Offerta di Cristo, la Chiesa si costituisce nella sua realtà sacramentale come Corpo di Cristo che procede dal Corpo eucaristico, così come nella sua identità di Sposa del Signore che vive della permanente accoglienza nel suo seno della fecondità dello Sposo divino-umano».

In questo modo, nella Chiesa, ciascuno di noi è un christifideles, e questa è la cosa fondamentale. Le diversificazioni ministeriali che successivamente possono verificarsi fanno parte del cammino vocazionale di ogni persona che contribuisce a costruire il corpo di Cristo: ministeri che si costruiscono a partire da una realtà che è precedente e che deve essere considerata la più decisiva. Questa è l’esperienza della primitiva comunità cristiana che il Concilio Vaticano II ha proposto nella Lumen gentium. La diversità dei membri della Chiesa – vescovi, sacerdoti, laici, persone consacrate – esprime non solo la pluralità delle storie e delle vocazioni, ma anche la dinamica relazionalità che co-costituisce l’identità di ciascuno e di tutti. Per questo l’espressione “necessità reciproca” è chiamata, a mio avviso, ad aprire la prospettiva propriamente sinodale, cioè della comunione dinamica, nella quale non solo “camminiamo insieme”, ma attraverso ciascuno con la stessa dignità, la Chiesa si manifesta in un tipo di unità che trascende quella meramente gerarchica e che privilegia l’importanza del sacerdozio comune di tutti i fedeli.

Rafael Luciani sottolinea acutamente:


«Il rapporto che esiste tra i fedeli non è né utilitaristico né funzionale, ma costitutivo e costituente, cioè riconfigurante le loro identità e modalità relazionali (…). Ciascuno pertanto, suo moda et pro sua parte (LG 31), è donato a l’altro per essere, rendendo possibile all’altro di essere”.

Ciò significa che la Chiesa, concepita primariamente come struttura gerarchica, che si articola dall’alto al basso, risulta essere una figura carente alla luce dell’esperienza della Chiesa nei tempi apostolici o alla luce dell’ecclesiologia della Seconda Concilio Vaticano. Siamo tutti Christifideles: dal Papa all’ultimo bambino battezzato. Godiamo tutti della stessa dignità. Siamo tutti corresponsabili. È alla luce della nozione di “Popolo di Dio” che dobbiamo interpretare la dimensione gerarchica della Chiesa e del ministero ordinato, e non viceversa. Inoltre, è la luce della nozione di “Popolo di Dio” che ci permette di riconsiderare anche le devozioni eucaristiche e la religiosità popolare con una nuova sfumatura.

Breve storia delle devozioni eucaristiche

Le devozioni eucaristiche hanno una lunga storia nella Chiesa. Vediamo brevemente come sono emersi. Nei primi secoli, nel contesto di varie persecuzioni, e non esistendo templi, le specie eucaristiche venivano conservate privatamente per essere distribuite tra gli ammalati, i carcerati e coloro che non avevano potuto partecipare alla Cena del Signore. Non appena le persecuzioni si attenuarono, la riserva delle specie eucaristiche assunse forme sempre più solenni. Verso il V secolo le specie vengono portate in un “sacrario” e nel VI secolo si ordina che il luogo sia eminente, onesto e dotato di una lampada permanentemente accesa. Queste e altre misure servono principalmente ad esprimere venerazione e fede nella presenza reale. Tuttavia non esiste ancora il culto della Presenza reale.

All’interno della messa, nello stesso momento, i fedeli compiono varie inclinazioni e prostrazioni. Più tardi, nella liturgia eucaristica, verrà estesa l’usanza cistercense di innalzare l’ostia e il calice dopo la consacrazione, suscitando nei fedeli l’adorazione interiore ed esteriore. Nei secoli IX e XI, vari movimenti ereticali che negavano la presenza reale costrinsero la Chiesa a rafforzare la dottrina sulla presenza di Cristo in anima e corpo, come uomo e come Dio, nell’Eucaristia. Nell’XI secolo Lanfranco, arcivescovo di Canterbury, istituì una processione con il Santissimo Sacramento la Domenica delle Palme. In quello stesso secolo, durante le controversie con Berengario, in alcuni monasteri benedettini nacque l’usanza di genuflettersi davanti al Santissimo Sacramento e di incensarlo. Infatti, la devozione individuale di andare a pregare davanti al tabernacolo ha un precedente storico nel “monumento” del Giovedì Santo a partire dall’XI secolo,

San Francesco d’Assisi, Santa Chiara e Santa Giuliana di Mont-Cornillon promuoveranno la vita devota davanti al tabernacolo. Quest’ultimo santo riceverà anche l’ispirazione per una festa sul corpo e sul sangue di Cristo. Papa Urbano IV alla fine approverà la festività per tutta la Chiesa, ma all’inizio ci sarà una relativa opposizione. Fu solo nel XIV secolo che sia le diocesi che gli ordini ospitarono la celebrazione in tutta la Chiesa.

La celebrazione del Corpus Domini prevedeva già nel XIII secolo una solenne processione, nella quale si svolgeva l’esposizione itinerante del Sacramento. E da esso derivano altre processioni col Santissimo Sacramento, ad esempio per benedire i campi, per compiere certe preghiere, ecc. D’altra parte, questa presenza palpabile e visibile di Dio, questa immediatezza della sua presenza, oggetto singolare di adorazione, ha prodotto un impatto molto notevole sulla mentalità cristiana occidentale e ha introdotto nuove forme di pietà, esigendo nuovi rituali e creando le corrispondenti pie letteratura. Già nel XIV secolo si praticava l’esposizione solenne e si benediceva con il Santissimo Sacramento. È l’epoca in cui furono realizzati gli altari e le cappelle del Santissimo Sacramento.

Le mostre più grandi furono istituite nel XV secolo. Dapprima il Sacramento viene posto sull’altare e viene adorato in silenzio. A poco a poco si sviluppa un rituale di queste adorazioni, con canti propri, che uniscono la devozione eucaristica a quella mariana. L’esposizione del Santissimo Sacramento ricevette un’accoglienza popolare così entusiastica che intorno al 1500 molte chiese la praticavano ogni domenica, normalmente dopo la recita dei Vespri. La consuetudine, ma anche la maggior parte dei rituali, prescrivono di inginocchiarsi davanti al Santissimo Sacramento. In principio il Santissimo Sacramento veniva tenuto velato sia nelle processioni che nelle esposizioni eucaristiche. Ma la consuetudine e la disciplina della Chiesa stabilivano già nel XIV secolo l’esposizione del corpo di Cristo “in cristallo” o “in pixide cristalina”.

Allo stesso modo nacquero le Confraternite del Santissimo Sacramento, alcune delle quali si svilupparono prima della festa del Corpus Domini. Quella dei Penitenti Grigi, ad Avignone, iniziò nel 1226, per riparare il sacrilegio degli Albigesi. Con vari nomi e modalità, le Confraternite Eucaristiche si diffusero in gran parte dell’Europa nel XIII secolo. Queste Confraternite assicurano l’adorazione eucaristica, la riparazione delle offese e del disprezzo contro il Sacramento, l’accompagnamento del Santissimo Sacramento quando viene portato agli ammalati o in processione, la cura degli altari e delle cappelle del Santissimo Sacramento.

Nel XVI secolo, le confraternite incentrate sull’Eucaristia avrebbero avuto una grande influenza sul popolo cristiano. Alcune, come la Compagnia del Santissimo Sacramento, fondata a Parigi nel 1630, formarono poi scuole complete di vita spirituale per i laici. Nei secoli successivi si moltiplicarono le associazioni e le opere eucaristiche: la Guardia d’Onore, l’Ora Santa, i Giovedì Sacerdotali, la Crociata Eucaristica o l’Adorazione Notturna. Allo stesso modo emergeranno comunità di vita consacrata molto diverse, dedite principalmente o parzialmente al culto.

Il culto dell’Eucaristia fuori della Messa viene, insomma, a integrare la pietà comune del popolo cristiano. Molti fedeli visitano quotidianamente il Santissimo Sacramento. Nelle parrocchie, con il rosario, diventa comune l’Ora Santa, l’esposizione quotidiana o settimanale del Santissimo Sacramento, ad esempio, nei giovedì eucaristici. In alcune diocesi si promuovono cappelle di adorazione perpetua e templi espiatori in cui l’esposizione del Santissimo Sacramento è quotidiana. Inoltre, il radicamento devozionale della visita al Santissimo Sacramento può essere verificato dall’abbondante letteratura pia che essa genera.

Non possiamo non ricordare che verso la fine del XIX secolo, su iniziativa di Emile Tamisier, sorsero i Congressi Eucaristici che, a livello nazionale, regionale o internazionale, costituiscono esperienze particolarmente importanti nella promozione della devozione eucaristica. Nel XX secolo San Pio

La sfida evangelizzatrice e catechetica attorno alle devozioni eucaristiche

Questo breve resoconto non ha altro scopo che mostrare che le devozioni eucaristiche accompagnano la vita della Chiesa da molti secoli. Il Popolo di Dio li ha accolti e promossi, e in molte occasioni accompagnano altre pratiche della religiosità popolare come i pellegrinaggi o le visite ai santuari.

Non è eccessivo riconoscere che talvolta le devozioni eucaristiche sembrano non essere legate alla dimensione comunionale della vita cristiana. Tuttavia, in regioni come l’America Latina, ciò è compensato da altri fattori che fanno di queste devozioni un forte aiuto per la vita cristiana di tanti fedeli e anche per la scoperta della dimensione comunitaria della fede. Quanti di noi si scoprono un “Popolo”, un vero “Popolo di Dio”, per esempio, camminando per molti giorni in pellegrinaggio verso un Santuario!

Naturalmente, la sfida evangelizzatrice e catechetica sarà sempre quella di promuovere la pietà eucaristica al di fuori della Messa, una visione che abbraccia allo stesso tempo la comunione eucaristica ed ecclesiale. D’altronde, questa sfida vale anche per la Santa Messa, che in alcuni luoghi può incredibilmente diventare una pratica rituale senza sufficienti riferimenti ecclesiali. Penso subito al recente intervento del cardinale Christophe Pierre, nunzio apostolico negli Stati Uniti, all’ultimo Congresso Eucaristico Nazionale in quel Paese:

“La potenza di Dio viene a noi nell’Eucaristia. Ma non possiamo essere agenti della potenza di Dio se insistiamo nel vedere le stesse cose, pensare le stesse cose e controllare i doni di Dio. Questo è il peggiore. Intendiamo essere i proprietari del gioco. Dobbiamo lasciarci possedere dallo Spirito di Dio e andare dove lo Spirito ci conduce. Siamo onesti. Tutti noi abbiamo paura di andare dove lo Spirito ci conduce. Non è vero? Forse questo dovrebbe essere il frutto principale della rinascita eucaristica”.

Queste e altre parole del cardinale Pierre sono un aiuto caritativo a chi ha difficoltà a vivere una comunione riconciliata, a chi preferisce scegliere schieramenti ideologici, a chi ecclesiasticamente non abbraccia tutti ma solo alcuni, a chi cerca di sperimentare una “Ravvivamento eucaristico””, ma non riescono a collegarlo ad un’adesione più affettiva ed effettiva al Successore di Pietro e alla necessità che la Chiesa si rinnovi sinodalmente. L’adorazione eucaristica con partecipazione alla Chiesa, la devozione eucaristica senza piena comunione con il Successore di Pietro, la celebrazione eucaristica, ma fuori dalla sinodalità, sono esperimenti che ledono la vera natura dell’Eucaristia. Ciò richiederebbe ulteriori spiegazioni, ma con quanto detto mi sembra che l’idea di fondo sia chiara.

Allo stesso modo, negli ultimi tempi, alcune nuove forme di adorazione eucaristica in alcuni Paesi, se svolte fuori dai templi, sembrano comportare il rischio di dissociare l’atto di adorazione dal resto della vita liturgica, cosa che la Chiesa raccomanda da tempo da evitare. Come in tutte le nascenti esperienze ecclesiali, sarà necessaria la necessaria maturazione e un paziente accompagnamento affinché questo e ogni altro rischio siano adeguatamente affrontati.

Ora, le devozioni eucaristiche talvolta si intersecano, tacitamente o esplicitamente, con varie forme di religiosità popolare. Pertanto è necessario ora parlare del modo in cui la Chiesa ha maturato la sua comprensione della religiosità popolare.

Della religiosità popolare, della spiritualità popolare

Nella Chiesa c’è stata anche una graduale maturazione del significato della religiosità popolare. Non è possibile qui fare una storia globale di questa bella dimensione dell’esperienza cristiana. Vorrei semplicemente sottolineare che è chiaro che l’esperienza della Chiesa latinoamericana è stata un fattore chiave per la nuova consapevolezza del ruolo positivo svolto dai molteplici modi in cui il nostro popolo vive spontaneamente la fede. Inoltre, oserei dire che ciò non esula dal processo di rinnovamento sinodale. Il modo con cui l’ecclesiologia del Popolo di Dio è stata recepita in America Latina dopo il Concilio ci ha permesso progressivamente di comprendere con più semplicità e profondità che Dio, Uno e Trino, ci precede e ci precede sia sul piano personale che su quello livello comunitario, generando movimenti, impulsi, iniziative, forme di espressione e di celebrazione che santificano veramente le persone e permettono di realizzare – non senza difficoltà – la trasmissione intergenerazionale della fede.

Papa Francesco ci dice a questo proposito:

“Per comprendere questa realtà è necessario avvicinarsi ad essa con lo sguardo del Buon Pastore, che non cerca di giudicare ma di amare. Solo a partire dalla connaturalità affettiva che dona l’amore possiamo apprezzare la vita teologale presente nella pietà dei popoli cristiani, soprattutto nei loro poveri. Penso alla fede salda di quelle mamme che, accanto al letto del figlio malato, si aggrappano a un rosario pur non sapendo come incatenare le proposizioni del Credo, o a tanta speranza riversata in una candela accesa in una casa umile per chiedere aiuto a Maria, o in quegli sguardi di tenero amore per Cristo crocifisso. Chi ama il santo popolo fedele di Dio non può vedere queste azioni solo come una naturale ricerca della divinità. «Sono la manifestazione di una vita teologale animata dall’azione dello Spirito Santo che è stato riversato nei nostri cuori (cfr Rm 5,5)».

E aggiunge, in maiuscolo per l’argomento in questione:

«La pietà popolare è un luogo teologico, cioè un luogo che ci mostra con autorevolezza aspetti rilevanti delle verità di fede. René Laurentin e Hans Urs von Balthasar, ciascuno con il proprio linguaggio, ci avevano già insegnato che la vita della Chiesa, la vita dei fedeli e dei santi, sono una fonte che annuncia in modo peculiare l’esistenza e il messaggio di Gesù Cristo . Ciò, trasferito al nostro contesto, significa che coloro che vivono l’esperienza della pietà popolare e si scoprono interiormente, diventano istanze di testimonianza della verità rivelata. In altre parole, la pietà popolare non contiene solo “semi della Parola” – come dissero i vescovi a Medellín (1968) – ma anche “frutti” della Parola di Dio nel cuore delle persone e delle comunità – come abbiamo riconosciuto ad Aparecida ( 2007) –. Per questo non è artificioso parlare anche di “spiritualità popolare”, perché è lo Spirito che santifica la vita anche attraverso i simboli, le preghiere, i canti e i pellegrinaggi che segnano, anche oggi, la vita di tanti membri del nostro popolo”. .

“Le molteplici forme di questa religiosità in America Latina resistono a concezioni secolarizzanti della vita sociale e della Storia. Questo è uno dei tanti segnali che ci permettono di comprendere che l’America Latina ha una sua specificità nelle sue dinamiche sociali e culturali. Specificità che non possono essere pienamente spiegate da modelli di interpretazione sociale costruiti ad altre latitudini. Infatti, le teorie della secolarizzazione e le teologie che in qualche modo ad esse si ispirano, trovano nella pietà popolare un contrappunto che dovrebbe aiutarle a correggersi e riformularsi. In una certa misura, il fallimento pastorale delle forme ideologizzate della teologia della liberazione si spiega proprio qui: il marxismo, per essere vero, dovrebbe andare di pari passo con un processo di crescente secolarizzazione. Al contrario, i poveri latinoamericani sperimentano spesso il dolore e l’esclusione da un’esperienza spirituale unica che dà loro speranza e che li spinge alla fraternità e alla lotta per la giustizia, soprattutto nei momenti di grave urgenza o emergenza.

Questa esperienza spirituale e popolare, che comprende i pellegrinaggi ai santuari, la pietà mariana, la devozione a diversi santi, la preghiera silenziosa di fronte alle prove della vita, e tanti altri gesti spontanei delle nostre persone più semplici, contribuisce alla configurazione della coscienza personale e comunitaria. Capisco bene che alcune élite possano trovare questa osservazione un po’ strana. Tuttavia, nulla è più istruttivo a questo riguardo della pastorale con i più poveri. Nell’amicizia con i poveri, nel servizio vicino e solidale con loro, si rivelano verità peculiari che rafforzano la fede e ci fanno amare più profondamente il nostro popolo e le rispettive storie”.

Sono dell’avviso che Papa Francesco, come Pastore della Chiesa universale, riprende oggi il lungo cammino di riflessione sulla religiosità popolare in America Latina e, con il dovuto discernimento, lo propone alla Chiesa universale.

In questo processo, un ruolo fondamentale ha giocato la V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano. I vescovi affermano in questo importante documento che “la pietà popolare è un modo legittimo di vivere la fede, un modo di sentirsi parte della Chiesa e un modo di essere missionari”. Il rischio è di disprezzarlo, o “considerarlo un modo secondario di vivere cristiano”. Questa spiritualità è “un’espressione di saggezza soprannaturale”, vissuta da persone che hanno ben poco di ciò che si chiama istruzione religiosa, ma “non è per questo meno spirituale, ma è spirituale in un altro modo”. Perché «la sapienza dell’amore non dipende direttamente dall’illuminazione della mente, ma dall’azione interna della grazia».

In altre parole: la Chiesa, come Popolo di Dio che cammina, riesce oggi a individuare che l’azione teologale di Dio va oltre gli spazi della celebrazione liturgica e diventa devozione popolare e spiritualità popolare.

Tutti i prudenti avvertimenti sulla necessità di evangelizzare e catechizzare l’esperienza religiosa delle persone in movimento sono sicuramente pertinenti. L’importante è che non implichi, tacitamente o esplicitamente, una concezione illuminata e razionalista della fede, in cui camminare con la gente, cantare con loro, celebrare il Vangelo nelle strade e nelle piazze, o pregare in silenzio davanti a un tabernacolo , significa una forma primitiva di azione di Dio nell’animo umano, un mero folclorismo o un modo inferiore di vivere la fede tipico dei poveri.

La razionalità che percorre la spiritualità popolare latinoamericana si distingue da quella degli illuminati. L’illuminismo ha fratturato in molti luoghi la religiosità delle oligarchie creole rispetto alla profonda esperienza religiosa che si andava sviluppando e continua a svilupparsi nei segmenti popolari, molti dei quali meticci e indigeni, dell’America Latina. Ciò ha portato a un certo disprezzo, a una certa distanza, a una certa prevenzione da parte di alcune élite che guardano con una certa superiorità morale alla religiosità popolare come se fosse una forma rudimentale, eclettica, non cristiana di fede viva.

Quando però la Chiesa vive esperienze di comunione, di partecipazione e di missione attiva in chiave sinodale, la visione è chiarita dalla presenza della fede viva del popolo che ringiovanisce tutti. È il Popolo di Dio, soprattutto quello più umiliato ed emarginato, che tante volte oggi ci mostra con semplicità che lo Spirito soffia dove vuole e che la forza del rinnovamento ecclesiale – propriamente sinodale – si fonda sulla maturazione della nostra immersione in Cristo nel Battesimo e nell’Eucaristia.

In questo modo, devozioni eucaristiche e spiritualità popolare sono due aspetti della pedagogia purificatrice che Dio stesso ci dona oggi per vivere più profondamente lo stupore davanti al Mistero. Senza questo stupore, forse tipico dei bambini, è molto difficile lasciare che le cose cambino nella propria vita, nella vita ecclesiale e nella vita sociale.

Sì, le devozioni eucaristiche e la spiritualità popolare fanno oggi parte del cammino che dobbiamo riscoprire per apprezzare meglio il significato della Presenza di Gesù Cristo nell’Eucaristia, nel cuore di una Chiesa sinodale, chiamata ad essere segno credibile di una fratellanza senza confini.