Cardinale Arizmendi: sacerdote indigeno assassinato

Una vita dedicata al servizio del suo popolo: padre Marcelo Pérez e la sua tragica fine

AFP

Il cardinale Felipe Arizmendi, vescovo emerito di San Cristóbal de Las Casas e responsabile della Dottrina della fede presso la Conferenza dell’Episcopato messicano (CEM), offre ai lettori di Exaudi il suo articolo settimanale.

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ASPETTO

Domenica scorsa, dopo aver finito di celebrare la messa nel quartiere di Cuxtitali, nella città di San Cristóbal de las Casas, in Chiapas, e mentre si preparava a recarsi nella sua parrocchia a Guadalupe, due individui in motocicletta hanno assassinato il sacerdote indigeno Marcelo Pérez Pérez, con diversi proiettili che lo hanno lasciato immediatamente senza vita. A oggi non ci sono dati sugli autori materiali e intellettuali. Penso che questo non abbia nulla a che vedere con i cartelli che si contendono il controllo del territorio in altre parti del Chiapas, i quali ottengono grandi profitti estorcendo denaro alle popolazioni e soprattutto ai migranti che vi transitano.L’omicidio di padre Marcelo fu probabilmente dovuto a lotte interne per il potere politico ed economico in un comune indigeno, situazione che il sacerdote cercò di risolvere attraverso la pace, nel rispetto reciproco come fratelli; ma forse i detentori di quel potere locale lo vedevano come una minaccia alle loro pretese di dominio. Questo deve essere chiarito dalle autorità competenti. Fu sempre un uomo di pace, senza interessi economici o di altro genere.

Padre Marcelo era un sacerdote del gruppo etnico Tsotsil. È stato il primo sacerdote indigeno che ho ordinato, nell’aprile 2002, con riti liturgici specifici della cultura secondo le norme della Chiesa. Era un uomo di preghiera e di impegno sociale, entrambi. Non era un semplice attivista sociale, né un leader politico, ma un pastore del suo popolo: molto concentrato sulla Parola di Dio, sul Magistero della Chiesa, e quindi molto impegnato nella lotta per la pace, la giustizia e la fraternità tra i nativi popoli. Nell’Eucaristia ha trovato la forza per affrontare pericoli, minacce e incomprensioni. Non si è mai alleato con partiti politici, né con i potenti di questo mondo, né ha maneggiato grandi quantità di denaro, ma la sua preoccupazione è stata quella di essere vicino alla gente, vicino agli oppressi e disprezzati, al dialogo con le autorità a tutti i livelli, cercare sempre la pace, la giustizia e la riconciliazione. Ci auguriamo che la sua morte sia un seme affinché ce ne siano tanti altri, indigeni e meticci, che continuino a lottare per la verità e la vita, per la santità e la grazia, per la giustizia, l’amore e la pace, che sono i valori che Gesù Cristo vuole per l’umanità.

Non rinunciò mai alle sue origini indigene e alla propria cultura, ed era aperto ad altri modi di vita e di pensiero. È un esempio per molti che si vergognano di essere indigeni. Purtroppo ci sono preti, seminaristi e suore che negano la loro cultura originaria, come se fosse un peso di cui volersi liberare. Ciò si spiega in parte con il persistente razzismo nella società, che però rappresenta una ricchezza nazionale, alla quale non dobbiamo rinunciare.

DISCERNERE

Non mancano persone che dicono che i preti non dovrebbero immischiarsi in queste cose; Ma il Concilio Vaticano II, nel Decreto sulla vita e il ministero dei presbiteri, ha già detto chiaramente: “Se è vero che i presbiteri sono debitori verso tutti, in modo particolare, tuttavia a loro sono affidati i poveri e i più vulnerabili. ”deboli, ai quali il Signore stesso si mostra unito (cfr Mt 25,34-45), e la cui evangelizzazione è data come segno dell’opera messianica” (PO 6; cfr Lc 4,18). “La predicazione sacerdotale non deve esporre la Parola in modo generale e astratto, ma applicare la verità perenne del Vangelo alle circostanze concrete della vita” (PO 4).

Nella sua Costituzione su La Chiesa nel mondo, afferma: “La missione che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è di ordine politico, economico o sociale. Lo scopo assegnatogli è religioso. Ma proprio da questa missione religiosa derivano funzioni, luci ed energie che possono servire a fondare e consolidare la comunità umana secondo la legge divina” (GS 42).


I vescovi latinoamericani affermavano nel Documento di Puebla del 1979: “Coloro che ricevono il ministero gerarchico sono costituiti, secondo le loro funzioni, pastori nella Chiesa. Come il Buon Pastore, vanno davanti alle pecore; Danno la vita per loro, perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza, li conoscono e sono conosciuti da loro. Andare davanti alle pecore significa essere attenti alle vie che percorrono i fedeli, affinché, uniti dallo spirito, testimonino la vita, la sofferenza, la morte e la risurrezione di Gesù Cristo, il quale, povero tra i poveri, ci ha annunciato sono tutti figli dello stesso Padre e quindi fratelli. Donare la vita segna la misura del ministero gerarchico ed è la prova dell’amore più grande. Conoscere le pecore ed essere conosciuti da loro non si limita a conoscere i bisogni dei fedeli. Conoscere è coinvolgere il proprio essere, amare come chi è venuto non per essere servito, ma per servire” (DP 681-684).

“La nostra missione di portare Dio agli uomini e gli uomini a Dio comporta anche la costruzione di una società più fraterna tra loro. Questa situazione sociale non ha cessato di provocare tensioni all’interno della Chiesa stessa; tensioni prodotte da gruppi che o sottolineano l’aspetto spirituale della missione, risentendo dell’opera di promozione sociale, oppure vogliono convertire la missione della Chiesa in una mera opera di promozione umana” (DP 90).

Il sacerdote, “come pastore impegnato per la liberazione integrale dei poveri e degli oppressi, opera sempre con criteri evangelici. Credi nella forza dello Spirito per non cadere nella tentazione di diventare leader politico, leader sociale o funzionario di un potere temporale; Ciò impedirà che sia segno e fattore di unità e di fraternità” (DP 696).

Ma “il sacerdote è un uomo di Dio. Può essere profeta solo nella misura in cui ha sperimentato il Dio vivente. Solo questa esperienza lo renderà portatore di una parola potente per trasformare la vita personale e sociale degli uomini, secondo il disegno del Padre” (DP 693).

ATTO

L’omicidio di padre Marcelo è un altro segno della decomposizione sociale del nostro Paese, per l’esacerbata violenza, per l’impunità per tanti crimini, per la libertà d’azione di cui gode la criminalità organizzata. Facciamo quello che dobbiamo fare, affinché ci sia pace e giustizia tra noi.