Il cardinale Felipe Arizmendi, vescovo emerito di San Cristóbal de Las Casas e responsabile della Dottrina della Fede presso la Conferenza dell’Episcopato Messicano (CEM), offre ai lettori di Exaudi il suo articolo settimanale intitolato “La sfida migratoria”.
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ASPETTO
Fin da quando ero bambino, negli anni ’40, diverse persone del mio paese emigrarono. Alcuni fuggirono dai conflitti ejidali di quei tempi a causa dello sfruttamento del legno. Molti di più sono andati a lavorare negli Stati Uniti, la maggior parte senza documenti, e la loro qualità di vita è migliorata; quasi tutti hanno costruito una buona case nella comunità per la loro famiglia e per se stessi quando potranno venire. Molti sono andati a studiare o lavorare nelle città vicine. Questa migrazione, in generale, è stata vantaggiosa per loro e per la mia gente. Quando arrivano le feste patronali, o se c’è qualche necessità comunitaria, collaborano in modo significativo.
Quando ero vescovo a Tapachula (1991-2000), passavano alcuni migranti, non tanti come adesso, soprattutto dal Guatemala, El Salvador e Honduras, e la diocesi, molto prima del mio arrivo, cercava di assisterli il più possibile, costruendo loro rifugi. La maggior parte di loro utilizzava il treno La Bestia, che in quegli anni collegava il confine tra Messico e Guatemala. L’uragano Stan ha distrutto molti ponti ferroviari e da allora il collegamento è stato sospeso. Quindi, la sfida più grande sono stati i quasi 55.000 rifugiati guatemaltechi, fuggiti dalla guerra civile nel loro paese. Seguendo quanto fece il mio predecessore, essi furono aiutati non solo con aiuti occasionali, ma anche promuovendoli occupazioni adeguate; successivamente li abbiamo accompagnati nel loro previsto ritorno in Guatemala.
Come vescovo a San Cristóbal de Las Casas (2000-2018), ho dovuto occuparmi dell’incremento migratorio che lì si intensificava, poiché molti migranti cercavano di raggiungere Palenque, dove avrebbero potuto salire sul treno rimasto lì, per tentare di raggiungere gli Stati Uniti. Quanta sofferenza hanno vissuto! Come sono stati estorti, sfruttati e molestati, sia dai polleri che dalle autorità per l’immigrazione! Abbiamo fatto tutto il possibile e la diocesi continua questo servizio a tanti fratelli che non smettono di cercare di raggiungere il loro obiettivo.
Ora le carovane dei migranti sono aumentate a tal punto da travolgere le diocesi, le agenzie umanitarie e le stesse autorità. Insistono affinché le cause vengano affrontate dai loro paesi di origine. Questo è molto corretto, perché se non c’è sicurezza e di lavoro nel luogo stesso, la gente non si fermerà, anche se alzassero più muri. Tuttavia, questi aiuti non sono stati sufficienti. A causa delle pressioni del governo nordamericano, siamo diventati un paese repressivo che espelle i migranti privi di documenti: è una grande sfida per tutti!
DISCERNERE
I vescovi della frontiera tra Texas e Messico hanno emanato un importante documento su questa realtà. Nella prima parte si analizza il fenomeno con i dati. Nella seconda fanno un discernimento profondo. Nella terza propongono alcune raccomandazioni. Trascrivo parte di ciò che dicono:
“La nostra prospettiva cattolica sui migranti e sui rifugiati è radicata nella Sacra Scrittura e nella Sacra Tradizione, con la guida del Magistero della Chiesa. La Bibbia parla dell’esperienza della migrazione. Dice, ad esempio, il libro dell’Esodo: «Non maltrattare e non opprimere lo straniero, perché anche voi foste stranieri in Egitto» (Es 22,20). Giuseppe, Maria e il bambino Gesù emigrarono temporaneamente in Egitto per sfuggire ai piani violenti del re Erode (cfr Mt 2,13-23). Gesù stesso insegna che, accogliendo lo straniero, in realtà accogliamo Lui, il quale dirà nel giudizio finale: «Ero straniero e mi avete accolto nella vostra casa» (Mt 25,35). Gesù ci visita nei migranti, che diventano nostri compagni di viaggio. In essi riceviamo come ospite colui che ci prepara la casa nel cielo, che è la nostra patria.
Nel corso della storia, la Chiesa, che come madre è stata attenta e premurosa verso i problemi dell’umanità, attraverso la sua dottrina sociale ha promosso e difeso il diritto naturale e inalienabile di ogni persona umana a migrare o a non migrare. Ha inoltre riconosciuto il diritto degli Stati a controllare le proprie frontiere e il dovere di accogliere e garantire i diritti dei migranti, che a loro volta devono rispettare il patrimonio materiale e spirituale del Paese che li accoglie, obbedire alle sue leggi e contribuire al suo sviluppo. . .
La Chiesa insegna che ogni persona ha diritto a trovare nel proprio Paese opportunità economiche, politiche e sociali che gli consentano di raggiungere una vita dignitosa e piena. Ciò richiede che ogni Paese, attraverso un’attenta amministrazione locale o nazionale, garantisca un commercio più equo e una cooperazione internazionale basata sulla solidarietà, e assicuri ai propri abitanti la libertà di espressione e di movimento, nonché la possibilità di alloggio e istruzione.
ATTO
Cosa fare? Gli stessi vescovi propongono: “Qualunque sia la loro situazione giuridica, la vita, la dignità e i diritti dei migranti devono essere riconosciuti, rispettati, promossi e difesi, così come i loro rispettivi doveri. La Chiesa riafferma la necessità prioritaria di uno Stato di diritto che protegga le famiglie, in particolare i migranti e i rifugiati, colpiti da nuove difficoltà. Lo Stato deve essere garante della parità di trattamento legislativo e, pertanto, deve tutelare tutti i diritti della famiglia migrante e rifugiata, evitando ogni forma di discriminazione negli ambiti del lavoro, dell’alloggio, della salute, dell’istruzione e della cultura.
È necessario un cambio di atteggiamento nei confronti degli immigrati e dei rifugiati da parte di tutti – dice il Papa – da un atteggiamento difensivo e sospettoso, dal disinteresse o dall’emarginazione a un atteggiamento che ponga come fondamento la ‘cultura dell’incontro’, l’unica capace di costruire un mondo più giusto e fraterno, un mondo migliore. Gesù ha detto: ‘Ero straniero e mi avete accolto’ (Mt 25,35). È attuale e urgente l’invito a praticare un’ospitalità che non può limitarsi alla mera distribuzione di aiuti umanitari, ma deve portare a condividere con chi è accolto il dono della rivelazione del Dio Amore, ‘che ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo Figlio unigenito’ (Gv 3,16)”.