È morto Benedetto XVI, quel papa bavarese umile, semplice e concreto, dal cuore benedettino e dall’acuto intelletto agostiniano, amante della musica classica e della sacra liturgia, e di tutto ciò che di bello e buono c’è in questo mondo. Residente in Vaticano dal 1981 e a lungo fermo custode e difensore della fede cattolica, Ratzinger è stato il più stretto collaboratore e il perfetto complemento di San Giovanni Paolo II, al quale è succeduto nel 2005 più per volontà dei suoi cardinali elettori che per suo disegno.
Il suo sarebbe stato un pontificato pieno di luci, ma anche di ombre. Tra queste luci, l’attuazione del Concilio Vaticano II, tre magnifiche encicliche, il suo fecondo magistero che si oppone ai pericoli del relativismo morale e del secolarismo sfacciato, la promozione dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso, la strenua difesa dei diritti umani e il fermo grido di tolleranza zero di fronte allo scandalo degli abusi sessuali che da tempo grava sulla Chiesa cattolica. Benedetto ha fatto di tutto per incontrare le vittime degli abusi, per riformare la legislazione ecclesiastica a causa dello scandalo e per richiedere la piena collaborazione dei chierici con le autorità civili, lottando contro l’allora dilagante cultura dell’insabbiamento all’interno della Chiesa. Ma gli scandali sugli abusi sessuali e lo scandalo Vatileaks, che ha messo a nudo una vena di corruzione nel cuore del Vaticano, hanno gettato un’ombra sul suo pontificato.
Le sue dimissioni nel 2013 hanno reso Benedetto una figura singolare nella storia della Chiesa. Giovanni Paolo II aveva governato per anni la Chiesa mentre era gravemente malato e infermo, senza scendere dalla Croce, come era palesemente chiaro a tutti nei mesi finali del suo pontificato. Benedetto, invece, ha sostenuto la Chiesa scendendo dalla croce, portando la croce attraverso una vita di silenzio sacrificale e di contemplazione. Due modi diversi, ma entrambi hanno servito in modo sublime i loro ultimi giorni inestricabilmente uniti a Gesù Cristo nel servizio alla Chiesa.
Nel 1998 ho avuto la fortuna di incontrare personalmente l’allora cardinale Ratzinger all’Università di Navarra, in Spagna, dove all’epoca ero un giovane professore di diritto. Egli trascorse alcuni giorni nel campus universitario di Pamplona, vivendo tra gli studenti, quando l’università gli conferì un dottorato honoris causa. La profondità del suo pensiero
e la semplicità della sua vita affascinarono il mio spirito. Fu allora che iniziai non solo a leggere ma a divorare gli scritti di Ratzinger, che si sarebbero rivelati di incommensurabile utilità nel mio lavoro di giurista.
Ho visto in Ratzinger una sorta di Francisco de Vitoria del XXI secolo, che univa magistralmente teoria e pratica. Nei suoi discorsi e seminari, ho visto come Ratzinger abbia colto con grande sagacia l’unità della conoscenza, l’unità della verità e, in definitiva, l’unità della realtà. Per questo Benedetto è stato in grado di trascendere e integrare tanti dualismi limitanti e di abbattere i falsi muri eretti tra fede e ragione, tradizione e rinnovamento, cristianesimo e illuminismo, amore e sofferenza, carisma e gerarchia, positivo e naturale, lavoro e contemplazione, umano e divino. Sì, la realtà è molto semplice: la realtà è una perché Dio è la realtà: “Egli è la realtà. La realtà che sostiene tutta la realtà”, affermerà Ratzinger in una delle sue ultime conversazioni pubblicate (Letzte Gespräche p. 269).
Come teologo, vescovo, cardinale e infine papa, Ratzinger ha cercato di indirizzare il suo intero magistero alla ricerca dell’unità nella Verità, realizzando la pienezza del suo motto di sempre: servitori della verità (cooperatores veritatis) (3 Giovanni 8). Per Benedetto, questa verità si trova solo in Gesù Cristo: “Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita, e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il suo corpo”, ha scritto nel suo testamento spirituale.
Non sorprende che la persona di Gesù Cristo abbia occupato per decenni la ricerca teologica di Benedetto, culminata in uno dei suoi capolavori: Gesù di Nazareth. A spingerlo a scrivere quest’opera è stato un intenso desiderio pastorale, un bisogno irrefrenabile di mostrare il volto del Figlio di Dio, unendo indissolubilmente il Gesù della storia con il Cristo della fede. L’ultima sezione del decimo capitolo del primo volume è forse il fiore all’occhiello di tutta l’opera. Lì vediamo Benedetto XVI nelle vesti di filosofo, esegeta, pastore, intellettuale e teologo mentre dipana con splendido successo il significato del nome di Cristo, colui che è “Io sono”.
Sì, Gesù Cristo è l’unica persona che può essere sempre, ora e in ogni momento, al presente: io sono. Gesù Cristo non è un nostalgico “ero” o un promettente “sarò”, ma un amorevole “sono”. Questo è Gesù ora e per sempre e lo è sempre stato, un Dio che non può e non vuole smettere di amare l’umanità, di amare appassionatamente il mondo fino alla follia. Questo è il Gesù di Nazareth di cui Benedetto XVI si è innamorato nella sua infanzia e con cui oggi e ora, e sempre nel presente, si sarà fuso in un abbraccio eterno. Che riposi nell’Amore questo che ha speso la sua vita seminando amore.
Rafael Domingo Oslé è Spruill Family Professor of Law and Religion alla Emory University e Álvaro d’Ors Professor all’Università di Navarra.