Dopo il discorso di Papa Francesco che ieri ha aperto i lavori della 74^ Assemblea generale dei vescovi italiani, oggi il presidente della Cei, cardinale Bassetti ha tenuto la sua relazione introduttiva. Dopo aver ripercorso la storia della Chiesa italiana dal Concilio ad oggi, Bassetti ha affermato tra l’altro che la Chiesa e la società italiana hanno bisogno di riconciliazione. Ecco il suo discorso:
Cari confratelli, siamo lieti di ritrovarci insieme per la nostra Assemblea di maggio. Permettetemi un’esclamazione, che sgorga dal profondo del cuore e che sicuramente sarà da tutti voi condivisa: finalmente! È un avverbio che ben descrive la soddisfazione per questo nostro con-venire tanto atteso. Finalmente non esprime distrazione o evasione dalla realtà, ma è immersione profonda nelle piaghe delle nostre comunità. Quanta solitudine, quanta tristezza, quanti lutti… Pensiamo, in particolare, alla tragedia di Stresa-Mottarone, rinnovando la nostra preghiera di suffragio per le quattordici vittime e per i loro familiari. Un pensiero affettuoso al piccolo sopravvissuto.
Accanto a chi soffre
La nostra presenza qui, in questi giorni, vuole essere una carezza di conforto per chi soffre o piange la perdita di un caro. Vuole anche essere una carezza di fiduciosa speranza, nella certezza che la morte non è mai l’ultima parola. Ecco, allora: finalmente siamo riuniti tutti insieme, potendo così vivere e rafforzare i vincoli della comunione e condividere la sollecitudine pastorale per le nostre Chiese, per il nostro amato Paese, per le donne e gli uomini che abitano questo tempo così difficile. Invochiamo su di noi e sui lavori che ci attendono la luce e la grazia dello Spirito Santo.
Ancora immersi nel clima della Solennità di Pentecoste, che abbiamo celebrato domenica, lasciamoci guidare in queste giornate dal brano del secondo capitolo del libro degli Atti. Quell’episodio della Chiesa primitiva sostenga la nostra riflessione, a partire da un dato di fatto: i discepoli su cui scende lo Spirito il giorno della festa di Pentecoste sono gli stessi apostoli e discepoli che avevano seguito Gesù nei tre anni della sua predicazione. È una comunità, dunque, che ha una sua piccola storia di fede da raccontare.
Nonostante le fatiche, i rallentamenti, le fughe in avanti e le cadute, c’è un cammino percorso con Gesù e che può essere raccontato. Così anche la Chiesa che è in Italia può raccontare la storia del suo cammino di fede, che parla della fedeltà al Magistero del Papa e si sviluppa, in particolare, dopo il Concilio Vaticano II, con alcune tappe significative, che non vanno dimenticate.
La fedeltà al magistero del Vescovo di Roma
Il nostro pensiero devoto e affettuoso va anzitutto a Papa Francesco, che abbiamo avuto la gioia d’incontrare e ascoltare ieri pomeriggio. Gli siamo particolarmente grati per il sostegno alle nostre Chiese e per la guida sicura, per la sollecitazione a essere Chiesa sinodale nel solco tracciato dal Concilio Vaticano II, per l’invito espresso il 30 gennaio nel Discorso pronunciato durante l’incontro promosso dall’Ufficio catechistico nazionale: «Il Concilio è magistero della Chiesa. O tu stai con la Chiesa e pertanto segui il Concilio, e se tu non segui il Concilio o tu l’interpreti a modo tuo, come vuoi tu, tu non stai con la Chiesa».
A caratterizzare lo stile, i gesti e le parole del Papa è l’intero evento del Vaticano II. Francesco sta scrivendo pagine preziose di recezione del Concilio, secondo quell’ermeneutica della continuità e della riforma illustrata da Benedetto XVI. Da qui l’invito ad avere a cuore il «santo popolo fedele di Dio, che – come dice il Concilio – è infallibile in credendo».
Il popolo di Dio
Nel riprendere il Concilio, è soprattutto la Chiesa come “popolo” a fare da perno al suo Magistero. Questa espressione a lui così cara, il “santo popolo fedele di Dio”, è presente fin dall’inizio del suo ministero, nella Evangelii Gaudium. Anzi, è presente fin dal primo saluto ai fedeli radunati in Piazza San Pietro, la sera stessa della sua elezione, quando – in un gesto indimenticabile – si è chinato domandando «la preghiera del popolo… per il suo vescovo». In quelle poche parole s’incontrano i grandi temi conciliari. “Popolo di Dio” è la categoria elaborata dal Vaticano II per esprimere la natura aperta, universale e storica della Chiesa. Il “popolo di Dio” non è una grandezza puramente sociologica, ma teologica, pastorale e spirituale. Questo “popolo di Dio” è insieme “santo” e “fedele”.
La santità, che il capitolo V della Lumen Gentium libera dalle strettoie di un’ascetica riservata a pochi e consegna, invece, all’intero “popolo di Dio”, è illustrata nell’Esortazione Gaudete et exsultate, con l’incisiva immagine dei “santi della porta accanto”, pienamente recepita dai fedeli. Anche questa nota, potremmo dire questa dilatazione della santità, è uno dei frutti più apprezzati del Concilio, che il Santo Padre sta portando a maturazione.
Nell’ultimo anno ci siamo resi conto ancora meglio, purtroppo passando attraverso una drammatica pandemia, di come la santità sia piantata nel terreno delle nostre comunità cristiane e civili. Di come l’amore di Dio operi nei cuori, anche al di là delle categorie con le quali siamo abituati a ragionare: credenti e non credenti, cristiani e non cristiani, praticanti o meno. Esiste una santità diffusa, che va raccolta e narrata. La recente beatificazione di Rosario Livatino ne è ulteriore testimonianza.
Popolo fedele
E, infine, il popolo “fedele”, cioè radicato nella fede, infallibile in credendo, come ricorda sempre il Papa riecheggiando Lumen Gentium n. 12. Sappiamo bene – e lo stesso Santo Padre lo ha ribadito nel recente discorso all’Azione Cattolica Italiana – che il “senso di fede” del “popolo di Dio” non si esprime con semplici meccanismi democratici, perché non sempre l’opinione della maggioranza è conforme al Vangelo e alla Tradizione. Piuttosto si alimenta con l’umile accoglienza della Parola di Dio, la celebrazione dei sacramenti, la fraternità e la preghiera, ossia le quattro “assiduità” della prima comunità cristiana.
Occorre però sapere intercettare questo “senso di fede”, saperlo ascoltare: a questo ci invita, ancora, Papa Francesco nel discorso del 30 gennaio: «Non dobbiamo avere paura di parlare il linguaggio della gente. Non dobbiamo aver paura di ascoltarne le domande, quali che siano, le questioni irrisolte, ascoltare le fragilità, le incertezze: di questo, non abbiamo paura». È, ancora una volta, il Concilio Vaticano II tradotto in italiano.
Una storia che affonda le radici nel Concilio Vaticano II
Cari confratelli, rileggiamo ora la nostra storia di Chiesa, lasciandoci guidare dai frutti che abbiamo raccolto dall’albero del Concilio. Le radici della nostra Conferenza Episcopale affondano proprio nel terreno dissodato dal felice annuncio di San Giovanni XXIII. La prima Assemblea Generale, con la partecipazione di tutti i Vescovi d’Italia, si svolge il 14 ottobre 1962. È stato un momento storico per l’Episcopato italiano, che avremo modo di ricordare. Era stato preceduto dieci anni prima (8 gennaio 1952) da una riunione, svolta con riservatezza, cui parteciparono i Presidenti delle Conferenze regionali delle regioni conciliari.
E venne seguito dieci anni dopo (nel 1972) dal riconoscimento vero e proprio della identità della CEI come istituzione, riformata dopo il Concilio, con un profilo pensato e voluto da San Paolo VI per dare il giusto dinamismo e la capacità d’iniziativa alla Chiesa che è in Italia, in comunione con il Papa, ma anche capace di assumersi le proprie specifiche responsabilità.
Gli anni Settanta
Nascono i piani pastorali e i Convegni ecclesiali, di dieci anni in dieci anni. Coinvolgendo migliaia di persone nella celebrazione e nella preparazione, questi risultano di fatto una sorta di convocazione allargata della Conferenza stessa. Non è un caso che l’elaborazione del primo Documento pastorale (“Evangelizzazione e Sacramenti”, 1973) e l’organizzazione del primo Convegno Ecclesiale (“Evangelizzazione e promozione umana”, Roma 1976), nei primi Anni Settanta siano proprio sincronizzati con il Sinodo dei Vescovi, un altro strumento voluto da Paolo VI a livello di Chiesa universale, e si configurino appunto in senso sinodale.
Con un grande risultato: si conferma la scelta della pastorale dell’evangelizzazione, intesa non solo come trasformazione ad intra della Chiesa, per passare da comunità di praticanti a comunità di credenti evangelizzati, ma anche come impegno di servizio e di trasformazione della società italiana. La cifra della “promozione umana”, strettamente collegata all’evangelizzazione, esprime bene questa intenzione pastorale-missionaria.
Il successo dell’esperimento degli Anni Settanta – anche con il confronto dialettico che ne scaturisce, e che si ripropone nei successivi appuntamenti – porta alla riproposizione dello schema, di decennio in decennio. E così, negli Anni Ottanta, si dà vita a un nuovo Documento pastorale: “Comunione e comunità” (1981). La scelta pastorale, da un lato, obbedisce a una precisa visione ecclesiologica che ha ormai fatto propria l’idea della Chiesa come comunità di credenti evangelizzati e, dall’altro, risponde alle tensioni di quegli anni.
I convegni ecclesiali: Loreto
Il secondo Convegno Ecclesiale nazionale (“Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini”, Loreto 1985) detta la linea pastorale che sarà attuata in Italia per l’intero pontificato di San Giovanni Paolo II e che può essere sintetizzato con le parole di Papa Wojtyla: è urgente «una sistematica, approfondita e capillare catechesi degli adulti, che renda i cristiani consapevoli del ricchissimo patrimonio di verità di cui sono portatori e della necessità di dare sempre fedele testimonianza alla propria identità cristiana».
Gli Anni Novanta, segnati dal tema “Evangelizzazione e testimonianza della carità” (1990), vedono il rafforzamento dell’idea di una Chiesa che è attenta ai dinamismi e alle problematiche della società italiana a cui vuole fattivamente rispondere, facendosene carico. La responsabilità della Chiesa è individuata nel suo essere una comunità che educa alla fede, nella «consapevolezza che in Cristo ci è donata la verità che salva […] Così la Chiesa rende anche un servizio eminente alla formazione delle persone dotate di una propria precisa e consistente identità, e aiuta la nostra società e la nostra cultura a resistere alla minaccia più grave che la insidia dal di dentro, e che consiste nel rifiutare o nel mettere tra parentesi la questione della verità dell’uomo, con tutte le sue enormi implicazioni culturali, etiche e pratiche» .
Palermo
Il terzo Convegno Ecclesiale (“Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia”, Palermo 1995) sottolinea come l’accezione teologica della carità corrisponda appieno alla proposta dell’evangelizzazione e imponga la necessità di un discernimento comunitario-ecclesiale, inteso come un vero e proprio metodo di azione pastorale. Solo così si può pensare a scelte pastorali che siano al contempo condivise e profetico-creative. Gli Anni 2000 ci consegnano, nei due Orientamenti “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” (2001-2010) ed “Educare alla vita buona del Vangelo” (2010-2020), una vera e propria “conversione pastorale” che permetta alla comunità cristiana di vivere una vita buona e bella, incentrata sul Vangelo, e di essere connotata dalla missione già a partire dalle parrocchie che devono assumere un “volto missionario”, definito nella Nota pastorale “Il volto missionario delle Parrocchie in un mondo che cambia” (2004).
Verona
Il quarto Convegno Ecclesiale (“Testimoni di Cristo risorto, speranza del mondo”, Verona 2006) richiama l’importanza di un’effettiva sinodalità nella vita delle Chiese e centra l’azione pastorale-missionaria delle Chiese italiane in cinque ambiti di vita personale e sociale: la vita affettiva, il lavoro e la festa, la fragilità umana, la tradizione, la cittadinanza. L’azione della Chiesa è così estroversa – “in uscita” – a favore di tutti quegli ambiti culturali ed esistenziali che esprimono la concretezza della vita e l’esigenza di unità interiore.
Firenze
Il quinto Convegno Ecclesiale (“In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”, Firenze 2015) con i cinque verbi tratti da Evangelii Gaudium – uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare – traccia la rotta lungo cui navigare. Le parole di Papa Francesco a Firenze sono la bussola: «Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà»
La ricchezza di questa nostra storia conferma che la sinodalità, come stile, metodo e cammino, è perfettamente coerente con un percorso che abbraccia cinque decenni, tanto più per la consapevolezza di un “cambiamento d’epoca” in atto. Come nei primi Anni Settanta, quando si disegnò il metodo dei Documenti, poi Orientamenti pastorali, verificati e rilanciati nei Convegni ecclesiali, così oggi la Chiesa che è in Italia è chiamata a un discernimento che generi conversione, comunione e corresponsabilità. Disegnare forme rinnovate è la nostra responsabilità odierna. In continuità con la storia di una Chiesa di popolo che, tanto più dopo le prove degli ultimi due anni, è chiamata a una propulsione rinnovata, che guardi ai processi, punti sulle relazioni, a partire dal concreto vissuto di ciascuno, sappia entrare con calore nelle pieghe della vita delle donne e degli uomini per offrire parole e testimonianze di speranza.
Un “cammino sinodale” per vivere il Noi ecclesiale
Cari confratelli, tornando al brano della Pentecoste, non si può non rilevare che Pietro è un elemento di continuità tra il prima e il dopo-risurrezione. Dopo la Pasqua, Pietro è ancora un destinatario prediletto dell’affetto del Risorto e riceve il mandato di prendersi cura del gregge del suo Signore. Qualche tempo dopo, continua a essere un punto di riferimento per la neonata comunità. È lui, infatti, che prende la parola e che fa maturare in tutti una decisione importante, come quella d’integrare nel gruppo dei Dodici un nuovo componente dopo la scomparsa di Giuda.
Nonostante tutto, Pietro rimane per gli altri apostoli e i discepoli colui che sa discernere le situazioni presenti e sa proporre nuove soluzioni da praticare insieme. Anche noi, grazie alla particolare identità della nostra Assemblea, abbiamo la grazia di essere particolarmente uniti a Pietro: siamo grati al Vescovo di Roma e nostro Papa per quanto ci incoraggia a fare costantemente. La Chiesa che è in Italia – la nostra Chiesa, le nostre Chiese – non è mai stata e mai sarà in contrapposizione a Pietro, al Suo Magistero, alla Sua Parola. Per questo, oggi, come è sempre avvenuto nella nostra storia, ci sentiamo chiamati a vivere la sinodalità, a disegnare un “cammino sinodale”.
Non un semplice evento
Sì, si tratta proprio di un “cammino”, non semplicemente di un evento, perché in gioco è la forma di Chiesa a cui lo Spirito ci chiama in particolare per questo tempo. Il “cammino sinodale” rappresenta così quel processo necessario che permetterà alle nostre Chiese che sono in Italia di fare proprio, sempre meglio, uno stile di presenza nella storia che sia credibile e affidabile, perché attento ai complessi cambiamenti in atto e desideroso di dire la verità del Vangelo nelle mutate condizioni di vita degli uomini e delle donne del nostro tempo.
Poiché siamo tutti chiamati ad acquisire questo stile, occorre che assumiamo con responsabilità la decisione di coinvolgerci in questo “cammino” che, come comprendiamo bene, non può risolversi in adempimenti formali, né soltanto nell’organizzazione di eventi che, a lungo andare, rischiano di diventare, come ebbe a dire San Giovanni Paolo II, “apparati senz’anima, maschere di comunione” . Al contrario, la sfida che attende anzitutto noi Vescovi è quella di mettere in campo percorsi sinodali capaci di dare voce ai vissuti e alle peculiarità delle nostre comunità ecclesiali, contribuendo a far maturare, pur nella multiformità degli scenari, volti di Chiesa nei quali sono rintracciabili i tratti di un Noi ricco di storia e di storie, di esperienze e di competenze, di vissuti plurali dei credenti, di carismi e ministeri, di ricchezze e di povertà.
Il primato della persona sulle strutture
È uno stile che domanda una serie di scelte che possono concorrere a rappresentare la forma concreta in cui si realizza la conversione pastorale alla quale Papa Francesco insistentemente ci richiama. È uno stile che vuole riconoscere il primato della persona sulle strutture, come pure che intende mettere in dialogo le generazioni, che scommette sulla corresponsabilità di tutti i soggetti ecclesiali, che è capace di valorizzare e armonizzare le risorse delle comunità, che ha il coraggio di non farsi ancora condizionare dal “si è sempre fatto così”, che assume come orizzonte il servizio all’umanità nella sua integralità.
Il Noi ecclesiale
È un cambio di rotta quello che ci viene chiesto: le possibili tappe del “cammino” ci permetteranno di familiarizzare con questo stile, perché esso possa arrivare a permeare il quotidiano dei nostri vissuti ecclesiali. Sono persuaso che tutti riconosciamo le ragioni che ci orientano nella direzione del “cammino sinodale”. Prima fra tutte è sicuramente la cura del Noi ecclesiale. Nei mesi passati, dopo la stretta del primo lockdown, alla riapertura delle chiese, con la ripresa delle attività pastorali consentite dalle norme per la limitazione dei contagi, si è fatto inequivocabilmente chiaro un volto delle nostre comunità fatto di forme molteplici di appartenenza all’unico Noi ecclesiale.
Non è stato evidentemente un fenomeno generato dalla pandemia. Quest’ultima lo ha solo scoperto, gli ha tolto ogni velo. E ci siamo resi conto, ancora meglio, di come le nostre comunità cristiane siano popolate da donne e uomini che interpretano figure plurali di esperienza credente, tutte degne di essere riconosciute nell’appartenenza all’unica tessitura della rete ecclesiale, la cui bellezza è data anche da questa multiformità.
Da tale prospettiva il “cammino sinodale” può essere davvero garanzia di un Noi ecclesiale allargato, inclusivo, capace di favorire un reciproco riconoscimento tra i credenti, all’altezza di dare forma storica alla figura conciliare di una Chiesa “popolo di Dio”. In una dinamica di Chiesa missionaria lo stile sinodale, lungi dal favorire processi di arroccamento ecclesiale e clericale, al contrario muove la vita delle comunità in una direzione di estroversione verso quelle periferie che, in prima battuta, non sono poi così lontane ed estranee ai nostri vissuti ecclesiali, ma che anzi vi appartengono in qualche modo.
Il ruolo dei laici
È evidente che questo cammino di popolo deve conoscere il passo comune e la responsabilità condivisa da parte di tutti. Penso, in questo momento, alla grande ricchezza di tanti laici e laiche che esprimono, in una vita credente affidabile, un senso forte di Chiesa e un servizio competente all’annuncio del Vangelo. Penso anche a tanti altri che, con la loro testimonianza, sono presenti nei mondi della cultura, della politica, dell’economia, e in essi rendono possibile la presenza del Vangelo e della comunità dei credenti alla quale, d’altra parte, essi recano il vissuto, «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce» degli uomini e delle donne di oggi. Il “cammino sinodale” delle nostre Chiese che sono in Italia ha, insomma, davvero bisogno di tutti perché insieme si possa continuare a portare avanti la missione che il Risorto continua ad affidare alla sua Chiesa.
Abbiamo bisogno di riconciliazione
Cari confratelli, nella scena della Pentecoste, che sta guidando la riflessione, c’è un aspetto che colpisce molto. Come scrive Luca: «Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù». Maria, che aveva visto morire suo figlio abbandonato dai suoi compagni di viaggio, adesso si trova a pregare proprio con loro. È una delle immagini più belle e incoraggianti della Chiesa delle origini: una comunità composta da peccatori riconciliati. Sono esseri umani come tanti, che però sanno trovare motivi di comunione al di là delle loro fragilità e delle differenti opinioni. La Risurrezione di Cristo opera anche queste meraviglie.
Ebbene, se qualcuno oggi mi chiedesse: “Di cosa la nostra Chiesa e anche la nostra società hanno urgente bisogno?”. Risponderei, senza esitazione, di riconciliazione, aggiungendo subito due sottolineature. La prima: la riconciliazione evoca in noi direttamente la persona di Gesù, che ha fatto incontrare Dio e l’umanità in un abbraccio d’amore ormai indissolubile. La potremmo definire una riconciliazione ecclesiale.
Riconciliazione ecclesiale
Nella scena della Pentecoste, le donne e gli uomini riconciliati sono il riflesso migliore della grazia del Risorto che si espande: le inimicizie e i sospetti non sono dimenticati, ma sono vinti dall’esperienza di un amore più grande. Le pagine successive di Atti ci raccontano di diversità di vedute: ma la vita interiore dei protagonisti sarà così forte che si potrà sempre trovare uno spazio di dialogo, di negoziato e di crescita insieme. O la nostra Chiesa di domani sarà mistica o non sarà; o sarà aperta al dialogo o non sarà; o sarà maestra di vita spirituale o non sarà; o sarà formatrice di coscienze o non sarà. Non si tratta dunque di elaborare e poi offrire un pensiero unico.
Papa Francesco ci sprona a guardare in faccia la realtà e a trovare soluzioni praticabili insieme, suggerendo il modello del poliedro, che «riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità».
Riconciliazione col mondo
La seconda sottolineatura riguarda la riconciliazione con il mondo. Lo Spirito consente ai discepoli «di parlare in altre lingue» e agli ascoltatori d’intenderli. Qui la riconciliazione è sinonimo di empatia. Già il Concilio aveva definitivamente mutato l’atteggiamento della Chiesa verso la modernità: non più il sospetto o il rifiuto, ma il dialogo e la profezia. È tempo di dare seguito a quel processo di confronto fiducioso e intelligente con la società. Mentre emergono qua e là estremismi, che usano la violenza per affermare le proprie idee, la comunità ecclesiale, tutta intera, porta il contributo costruttivo della mediazione e della pace, della razionalità e della carità, costruendo ponti di comprensione con tutti e prendendo sul serio le domande antropologiche fondamentali.
Lo sguardo sulla realtà italiana e internazionale
La Pentecoste ci indica poi la via del “realismo spirituale”. Gli eventi drammatici, come la lapidazione di Stefano o la persecuzione dei cristiani di Gerusalemme, vengono posti senza sconti sotto gli occhi del lettore. Così anche gli apostoli e i discepoli tra cui Maria «si trovavano insieme nello stesso luogo». Il gruppo è spaventato e ne ha ben donde: fuori da quella porta c’è una minaccia di morte che incombe. Non è forse questo il sentimento che ci ha animato per mesi, durante il periodo più acuto della pandemia?
«E quindi uscimmo a riveder le stelle», direbbe il Sommo Poeta, di cui quest’anno ricordiamo il VII centenario della morte, guardando a questo tempo di rinascita. Le sue parole sono presagio di un cammino nuovo, di luce e speranza, dopo le tenebre precedenti. «L’amor che move il sole e l’altre stelle», ci spronerebbe Dante quasi a smuovere le nostre volontà e i nostri desideri verso quell’anelito a Dio che diventa visione rinnovata dell’umanità. Ne abbiamo grande bisogno se pensiamo all’attualità italiana e internazionale.
L’inverno demografico
Guardiamo, ad esempio, al cosiddetto inverno demografico. Papa Francesco nel suo intervento agli “Stati generali della natalità”, organizzati venerdì 14 maggio dal Forum delle Associazioni Familiari, ha ricordato che «le cifre drammatiche delle nascite e quelle spaventose della pandemia chiedono cambiamento e responsabilità». Quella degli “Stati generali” è stata anche l’occasione per un’assunzione d’impegno da parte del Presidente del Consiglio, Mario Draghi. Sono ormai più di trent’anni, che la nostra Conferenza puntualmente ricorda la questione demografica: quello che allora si profilava e che con chiarezza avevano illustrato gli esperti, oggi, per l’implacabile legge dei numeri, è manifestamente presente a tutti.
Per risalire la china servono ovviamente gli interventi di carattere fiscale e amministrativo, riassunti ad esempio nell’“assegno unico” in via d’implementazione per tutte le categorie di lavoratori e lavoratrici, servono le politiche attive del lavoro soprattutto femminile, rispettose dei tempi della famiglia e della cura dei figli.
Un modello di sviluppo chiaro
E a proposito di lavoro, chiediamo un’attenzione perché questo avvenga sempre in condizioni sicure. Basta morti sul lavoro! È un’emergenza da affrontare: servono una strategia e una forte iniziativa nazionale che coinvolga tutti, Governo, Istituzioni e cittadini. Ci auguriamo che si proceda in tal senso. Guardando ancora alla questione demografica, è necessario un approccio culturale e, mi si permetta, spirituale. Non sono in gioco gli schieramenti politici e gli interessi, peraltro mutevoli, delle forze politiche. È in gioco l’atteggiamento verso il futuro, nei confronti del quale l’inverno demografico e il calo della fecondità denunciano uno strutturale malessere. Per scaldarsi dal freddo dell’inverno, serve un modello di sviluppo chiaro nei principi e negli indirizzi di fondo che sappia non solo farsi carico, ma armonizzare in un quadro organico le varie stagioni della vita, dagli anziani ai bambini.
Dialogo sul ddl Zan
Sulla trasmissione e sullo sviluppo della vita e della famiglia non sono accettabili soluzioni al ribasso. Per questo la nostra Presidenza è intervenuta con un comunicato a proposito del dibattito in corso sul disegno di legge recante “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. Ribadiamo come ci sia ancora tempo per un “dialogo aperto” per arrivare a una soluzione priva di ambiguità e di forzature legislative.
Piano di ripresa
Quanto a un nuovo sviluppo, che abbia chiari non solo i traguardi, ma anche i valori, grande importanza riveste il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Può essere una occasione importante di crescita collettiva: vi sia la saggezza di coinvolgere tutte le energie positive del Paese, che sono tante e, nello stesso tempo, disperse. Non è nostra competenza entrare nelle determinazioni tecniche: nello spirito, ad esempio, dell’“Economia di Francesco” e della prossima Settimana sociale, è opportuno che le varie realtà operanti nel mondo cattolico lo seguano con operosa attenzione proprio in ordine al “modello di sviluppo”. Che è italiano e necessariamente europeo; l’Italia – in concreto, le realtà sociali, istituzionali e culturali – è chiamata a dare un contributo più vivace e propositivo.
Insieme con la lotta alla pandemia, attraverso la cura e la vaccinazione – due braccia dello stesso impegno – il PNRR è al centro dei compiti programmatici che ha assunto il governo sostenuto da un largo consenso parlamentare. Possa un piano pluriennale di investimenti rappresentare quel tessuto connettivo robusto e condiviso, su cui poi la dialettica e la polarizzazione politica si possano sviluppare con responsabilità. Questo Piano può inoltre diventare un’opportunità per rilanciare l’economia del Paese, dando respiro e ristoro ad una società provata dalla persistente emergenza sanitaria, che sta producendo effetti molto pesanti sulla situazione socio-economica.
I nuovi poveri
Lo raccontano bene i dati raccolti dalla Caritas che delineano un quadro con molte ombre: dal 1° settembre 2020 al 31 marzo 2021, le Caritas hanno accompagnato 544.775 persone, in media, 2.582 al giorno. La maggioranza è rappresentata da italiani (57,8%). Quasi una persona su quattro (24,4%) è un “nuovo povero”, ossia una persona che non si era mai rivolta in precedenza alla rete Caritas. Si tratta di 132.717 persone in totale, in media 629 nuovi poveri al giorno. Nel corso di oltre un anno di pandemia si sono affacciati alle Caritas almeno 453.731 nuovi poveri.
Appello per la Terra Santa
Guardando alla situazione internazionale, ci uniamo all’accorato appello del Santo Padre affinché in ogni area di conflitto – e, in particolare, in Terra Santa – tacciano le armi e ci si incammini sulla strada del dialogo e della riconciliazione. Di fronte alla guerra, che il Papa ha definito «un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male», è necessario pregare ma anche fare ogni sforzo per favorire la pace. Solo promuovendo la giustizia e lo sviluppo, aiuteremo il Mediterraneo a tornare ad essere ciò che fu – come auspicava Giorgio La Pira – ovvero luogo di incontro, di unione e di arricchimento reciproco, e non di sofferenza, dolore e morte come accade ormai da troppo tempo, spesso nell’indifferenza generale.
Le cronache di questi giorni rendono ancora più necessarie iniziative di condivisione e conoscenza reciproca sullo stile di quanto abbiamo vissuto a Bari nel febbraio 2020. Per questo, stiamo studiando un’altra occasione che possa far maturare ancora di più la coscienza di quanto sia attuale il sogno di La Pira: il Mediterraneo, culla delle civiltà monoteiste che egli chiamava «la triplice famiglia di Abramo», è chiamato a riprendere il suo posto nella storia in un mondo sempre più minacciato da guerre e distruzione.
Le migrazioni
Circa il fenomeno migratorio, la Conferenza Episcopale Italiana, attraverso i suoi Uffici nazionali, ha garantito l’arrivo in Italia e l’accoglienza in sicurezza di oltre mille profughi dal Medio Oriente e dall’Africa, dimostrando che è possibile un’alternativa agli ingressi irregolari e alle morti in mare, su cui un giorno sarà severo e inappellabile il giudizio di Dio: “Dov’è tuo fratello?”.
Fare tempo e spazio alle domande degli uomini e delle donne di oggi
Cari confratelli, questi dati ci ricordano che la realtà non è qualcosa che è “là fuori” ed è semplicemente da riconoscere. Ogni volta che guardiamo la realtà, lo facciamo con i nostri occhi. Se la nostra è una lettura spirituale della vita, questo ci consente di vedere cose e opportunità di amore che altri non vedono. Per questo, è importante esprimere la nostra gratitudine a quanti sostengono lo sguardo verso la realtà con la loro testimonianza: sacerdoti (durante la pandemia ne sono morti oltre 200); religiosi e religiose; catechisti e educatori.
Presenza continua
Pur nelle difficoltà e nelle ristrettezze imposte dalla pandemia, mai è mancata la proposta liturgica e di educazione alla vita cristiana. «La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. […] Accompagna l’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere».
È uno dei tratti della Chiesa in uscita, che – nonostante le restrizioni – ha saputo muoversi verso l’umanità. La scena della Pentecoste si conclude di fatto con l’accoglienza di nuovi battezzati, che cominciano con il condividere alcuni capisaldi della vita cristiana: il battesimo, l’eucaristia, il credo degli apostoli, la comunione fraterna e la vita spirituale. Questo quadro tutto sommato idilliaco non è l’unico. Più tardi sorgeranno diversità di vedute e dissensi nella Chiesa delle origini.
Cuore largo di chi sa discernere
Eppure, nel cosiddetto Concilio di Gerusalemme quegli uomini così diversi ma riconciliati sono riusciti a trovare una soluzione ai conflitti, valida per sempre. Da una parte, s’individua l’essenziale e su quello si concorda una linea comune; dall’altra, si lascia spazio al carisma personale su ciò che essenziale non è. La stagione che si sta aprendo richiederà che soprattutto noi pastori abbiamo il cuore largo di chi sa discernere, evitando gli estremi di un gretto massimalismo o di uno scialbo minimalismo.
Cari confratelli, pensare la Chiesa in termini di riconciliazione significa saper convergere su alcuni punti essenziali, valorizzando nel frattempo anche la creatività e le nuove proposte. Una Chiesa in “cammino sinodale” sa dare e fare tempo e spazio alle domande degli uomini e delle donne di oggi. Una Chiesa in “cammino sinodale” genera uno sguardo positivo e accogliente. Affidiamo i lavori di questa Assemblea all’intercessione della Vergine Maria, del suo sposo Giuseppe e a tutti i Santi e le Sante patroni delle nostre Chiese.