Alle ore 17 di oggi, Venerdì Santo, il Santo Padre Francesco presiede nella Basilica Vaticana la celebrazione della Passione del Signore.
Durante la Liturgia della Parola viene letto il racconto della Passione secondo Giovanni; quindi il Predicatore della Casa Pontificia, P. Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., tiene l’omelia.
La Liturgia della Passione prosegue con la Preghiera universale e l’adorazione della Santa Croce e si conclude con la Santa Comunione.
“ANNUNCIAMO LA TUA MORTE, SIGNORE!”
Da duemila anni, la Chiesa annuncia e celebra, in questo giorno, la morte del Figlio di Dio sulla croce. A ogni Messa, dopo la consacrazione, essa proclama: “Annunciamo la tua morte, Signore. Proclamiamo la tua risurrezione. Nell’attesa della tua venuta!”
Un’altra morte di Dio, però, viene proclamata da un secolo e mezzo ad oggi, nel nostro mondo occidentale secolarizzato. Quando, nell’ambito della cultura, si parla della “morte di Dio”, è quest’altra morte di Dio – ideologica, non storica – che si intende. Alcuni teologi, per non rimanere indietro rispetto ai tempi, si affrettarono a costruirci sopra una teologia: “La teologia della morte di Dio”.
Non possiamo far finta di ignorare l’esistenza di questa diversa narrazione, senza lasciare preda del sospetto tanti credenti. Questa diversa morte di Dio ha trovato la sua perfetta espressione nel noto proclama che Nietzsche mette in bocca all’”uomo folle” che arriva trafelato sulla piazza della città:
Dov’è andato Dio? – gridò – Ve lo dico io! Siamo stati noi a ucciderlo: voi ed io!… Non ci fu mai un’azione più grande. Tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, a una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi [1].
Nella logica di queste parole – e, credo, nelle attese del loro autore – c’era che, dopo di lui, la storia non si sarebbe più divisa in Avanti Cristo e Dopo Cristo, ma Avanti Nietzsche e dopo Nietzsche. Apparentemente, non è il nulla che viene messo al posto di Dio, ma l’uomo, e più precisamente il “super-uomo”, o “l’oltreuomo”. Di questo nuovo uomo si deve esclamare ormai – con un sentimento di compiacimento e orgoglio, non già di compassione: “Ecce homo!”: Ecco il vero uomo![2]. Non si tarderà, però, a rendersi conto che, rimasto solo, l’uomo è nulla.
Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?
La risposta tacita e rassicurante dell’”uomo folle” a queste sue domande è: “No, non vagheremo in un infinito nulla, perché l’uomo assolverà, lui, il compito assegnato finora a Dio!” La nostra risposta di credenti è, invece: “Sì, ed è esattamente quello che è successo e che sta succedendo! Stiamo vagando come attraverso un infinito nulla”. È significativo che, proprio nel solco dell’autore di quel proclama, si sia arrivati a definire l’esistenza umana un “essere-per-la-morte” e a considerare tutte le supposte possibilità dell’uomo delle “nullità in partenza”[3].
“Al di là del bene e del male”, è stato un altro grido di battaglia del filosofo![4]; ma al di là del bene e del male c’è solo “la volontà di potenza”, e noi sappiamo dove essa conduce…
Non ci è lecito giudicare il cuore di un uomo che solo Dio conosce. Anche l’autore di quel proclama ha avuto la sua parte di sofferenza nella vita, e la sofferenza unisce a Cristo forse più di quanto le invettive separino da lui. La preghiera di Gesù sulla croce: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34), non fu pronunciata solo per quelli che erano presenti quel giorno sul Calvario…
Mi torna in mente un’immagine che ho osservato talvolta dal vivo (e che spero sia diventata realtà, nel frattempo, per l’autore di quel proclama!): un bimbo, arrabbiato, cerca di colpire con pugni e graffi sul viso il proprio padre, finché, esaurite le forze, cade piangendo tra le braccia di lui che lo acquieta e se lo stringe al petto.
Non giudichiamo, ripeto, la persona che solo Dio conosce. Il seguito, però, che quel suo proclama ha avuto, quello sì che lo possiamo e lo dobbiamo giudicare. Esso è stato declinato nei modi e con i nomi più diversi, fino a diventare una moda, un’atmosfera che si respira negli ambienti intellettuali dell’Occidente “postmoderno”. Il denominatore comune di tutte queste diverse declinazioni è il totale relativismo in ogni campo: etica, linguaggio, filosofia, arte e, naturalmente, religione. Nulla è più solido; tutto è liquido, o addirittura vaporoso. Al tempo del romanticismo ci si crogiolava nella malinconia, oggi nel nichilismo.
Come credenti è nostro dovere mostrare che cosa c’è dietro, o sotto, quel proclama, e cioè il guizzo di una fiamma antica, l’improvvisa eruzione di un vulcano mai spento dall’inizio del mondo. Il dramma umano ha avuto anch’esso il suo “prologo in cielo”, in quello “spirito della negazione” che non accettò di esistere in grazia di un altro. Da allora, egli non fa che reclutare sostenitori della sua causa, primi tra essi gli ingenui Adamo ed Eva: “Sarete come Dio. Conoscerete il bene e il male!” (Genesi 3,5).
All’uomo moderno, tutto ciò non sembra che un mito eziologico per spiegare il male del mondo. E – nel senso positivo che oggi si dà al mito – tale esso è in realtà! Ma la storia, la letteratura e la stessa nostra esperienza personale ci dicono che dietro questo “mito” c’è una verità trascendente che nessuna narrazione storica o ragionamento filosofico potrebbe trasmetterci.
Dio conosce il nostro orgoglio e ci è venuto incontro, annientandosi, lui per primo, davanti ai nostri occhi. Cristo Gesù,
pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio,
ma spogliò se stesso
assumendo la condizione di servo,
e divenendo simile agli uomini.
Apparso in forma umana, umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.(Fil 2, 6-8)
“Dio? Siamo stati noi a ucciderlo: voi ed io!”, grida “l’uomo folle”. Questa cosa tremenda si è, di fatto, realizzata una volta nella storia umana, ma in senso ben diverso da quello da lui inteso. Perché è vero, fratelli e sorelle: siamo stati noi – voi ed io – a uccidere Gesù di Nazareth! Egli è morto per i nostri peccati e per quelli di tutto il mondo (1Gv 2,2)! Ma la sua risurrezione ci assicura che questa strada non va verso
la disfatta, ma, grazie al nostro pentimento, porta a quella “apoteosi della vita”, invano cercata altrove.
Perché parlare di questo durante la liturgia del Venerdì Santo? Non per convincere gli atei che Dio non è morto! I più celebri tra essi l’hanno scoperto per conto proprio, nel momento in cui hanno chiuso gli occhi alla luce – meglio, alle tenebre – di questo mondo. Quanto a quelli tra loro che sono ancora in vita, per convincerli occorrono ben altri mezzi che le parole di un predicatore. Mezzi che il Signore non farà mancare
a chi ha il cuore aperto alla verità, come chiederemo a Dio nella preghiera universale che seguirà.
No, lo scopo vero è un altro; è trattenere i credenti –chissà, magari soltanto qualche studente universitario – dall’essere attirati dentro questo vortice del nichilismo che è il vero “buco nero” dell’universo spirituale, Far risuonare fra noi l’ammonimento sempre attuale del nostro Dante Alighieri:
Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:
non siate come penna ad ogni vento,
e non crediate ch’ogni acqua vi lavi [5].
Continuiamo, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, a ripetere con commossa gratitudine e più convinti che mai, le parole che proclamiamo a ogni Messa:
Annunciamo la tua morte Signore.
Proclamiamo la tua Risurrezione.
Nell’attesa della tua venuta!
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[1] Friedrich Nietzsche, La gaia scienza (1882) n. 125.
[2] Friedrich Nietzsche, Ecce homo, 1888.
[3] Martin Heidegger, Essere e tempo, sez. II, cap. 2-3.
[4] F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse (1886).
[5] Paradiso, V, 73-75.