L’11 febbraio, festa della Madonna di Lourdes, la Chiesa celebra la XXX Giornata del Malato, istituita da San Giovanni Paolo II. L’ha ricordato anche Papa Francesco al termine dell’udienza del mercoledì. Il direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della salute della Cei, don Massimo Angelelli, ha scritto una lunga lettera in cui esprime gratitudine e riconoscenza a chi dei malati si prende cura. Ma sollecita anche investimenti “in una rinnovata attenzione alle condizioni sociali ed economiche in cui voi, i nostri Curanti, operate”. Come pure un ripensamento dei percorsi di accesso alle professioni sanitarie.
Il peso della pandemia
Partendo dal tema della Giornata «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. Porsi accanto a chi soffre in un cammino di carità», il sacerdote esprime “gratitudine e riconoscenza, rispetto e stima” nei confronti dei “curanti che da sempre, e negli ultimi tempi in modo decisamente più intenso, vi prendete cura dei malati e dei sofferenti. Ciò che abbiamo vissuto negli ultimi due anni, e continuiamo a vivere, vi vede impegnati fino all’estremo delle vostre risorse. Lo stress accumulato, il peso e la fatica, il disorientamento e la sensazione di impotenza di fronte ad una situazione globale, solo immaginata, hanno messo a dura prova la vostra dimensione professionale e personale”.
La mancanza di sanitari
Don Angelelli fa un quadro della situazione da cui emerge come “la riduzione dell’umanesimo in medicina abbia comportato la quasi scomparsa della carità medica”. E come “il dilagare di una pandemia abbia messo in luce alcune fragilità ormai consolidate del nostro sistema sanitario. Tra tutte, l’evidente mancanza di un numero adeguato di professionisti sanitari e un forte carattere di regionalizzazione che genera grandi differenze nell’offerta dei servizi”.
Il divario tra centro e periferia
C’è poi un altro problema portato a galla dalla pandemia: la profonda differenza tra zone rurali e periferiche e centri metropolitani: “Un modello che sembra generare una nuova categoria, che potremmo definire degli irraggiunti: coloro che, pur avendone diritto, non riescono o non vengono messi in condizione di accedere al Servizio Sanitario Nazionale”. Infine, la questione della salute mentale, “che richiederà sempre più attenzione e sensibilità”.
“La pandemia – afferma don Angelelli – ci ha colpito nella salute, ci ha impoverito nelle relazioni e ha compromesso anche la situazione economica. Il mondo sanitario e la pastorale della salute incrociano quotidianamente queste situazioni: non solo ne prendono atto, ma se ne prendono cura. La pazienza, non passiva, ma capace di rispondere alle domande della vita, è oggi chiesta non solo al curato ma anche al curante”.
Gratitudine
Tutto questo porta ad esprimere “assoluta gratitudine a ciascuno di voi per la disponibilità e abnegazione con cui vive, in scienza e coscienza, la propria professione. Guardiamo con gratitudine ai moltissimi medici, infermieri e professionisti sanitari che operano nelle strutture, come pure ai medici di medicina generale e ai pediatri, agli operatori dell’assistenza domiciliare, ai farmacisti, che sono presenti capillarmente sul territorio. Tutti voi svolgete non solo un fondamentale e irrinunciabile ruolo sanitario, ma anche sociale. È sempre più apprezzabile quell’atteggiamento di cura che non disgiunge mai l’aspetto umano da quello sanitario, anzi, che cura il corpo e rincuora lo spirito, in una vicinanza empatica che illumina le giornate della persona malata”. E con loro, la riconoscenza si estende ai loro familiari.
Le preoccupazioni
Tante, poi, sono le preoccupazioni. A iniziare dagli episodi di aggressione che “generano nel personale sanitario un senso di solitudine e di abbandono che umilia sia la dimensione umana che quella professionale. In coloro che sono in prima linea vengono individuati obiettivi da colpire per responsabilità che non appartengono a loro”. C’è poi “il crescente peso delle procedure burocratiche, che non sempre paiono essere a tutela della persona, ma piuttosto a protezione di specifici interessi”.
E ancora, “una tensione che incrocia la dimensione personale con quella professionale: l’agire della collettività, della narrazione massmediatica e dei social, soprattutto quando assume caratteristiche aggressive o rivendicative, epiche o apocalittiche, ha una ricaduta anche sulla dimensione personale del professionista”. Infine, “l’illusione che ogni farmaco e ogni terapia fossero facilmente a portata di mano si è scontrata con la necessità di riconsiderare il senso umano del limite”.
Speranza
Ma nonostante tutto, scrive don Angelelli, “nell’ascoltarvi constatiamo come una delle costanti del vostro lavoro sia la speranza. Speranza nell’umano, speranza in Dio. Un primo segnale di speranza viene dai giovani, che scelgono le professioni sanitarie, nuovamente chiamati a coniugare scienza e fede. La loro credibilità professionale si misurerà sul bene che faranno e che vorranno realizzare. Per sostenere la loro crescita umana e professionale sarà opportuno integrare nei percorsi formativi quelle dimensioni etiche, umane e relazionali, oggi scarsamente presenti”.
Investire in sanità
Migliorare le condizioni in cui lavorare appare fondamentale: “A nostro avviso, sarebbe opportuno investire in una rinnovata attenzione alle condizioni sociali ed economiche in cui voi, i nostri Curanti, operate; così come merita una seria riflessione il ripensamento della programmazione del numero di coloro che possono accedere ai percorsi formativi accademici. Il Paese ha bisogno di più professionisti della salute che vedano riconosciuto il loro ruolo e siano messi nelle condizioni di operare al meglio”.
Santi della bellezza e della cura
Ma la speranza “nasce anche dall’incontro con i testimoni, con quanti mettono a disposizione un patrimonio spirituale che arricchisce chiunque li incontri. I santi della sanità sono santi della bellezza, della speranza e della cura. Oltre la dimensione fisica e psichica, sappiamo che la condizione di malattia facilmente invade la sfera spirituale.
Ogni persona è chiamata a prendersi cura della propria anima. Nei corridoi degli ospedali come nel domicilio del malato la presenza testimoniante dei cappellani e degli assistenti spirituali assicura il necessario completamento della presa in carico di tutti i bisogni della persona sofferente, comprendendo la dimensione spirituale. Anche questi operatori di pastorale della salute, per competenza e ambito, li consideriamo Curanti. Questo ringraziamento è esteso anche ai Curanti della porta accanto che in tante case dei sofferenti svolgono concretamente un compito di cura: sono nascosti e silenziosi portatori di bene. Ogni credente, ogni fedele cristiano è chiamato a testimoniare nella diaconia la propria coerenza di fede”.
Fratelli tutti
“La speranza – conclude il sacerdote – cambia lo sguardo: non si vede più la frammentazione della persona del paziente, talvolta ridotto a codice sanitario, non si vede più soltanto la patologia o l’organo malato. La speranza trasforma lo sguardo e permette di accogliere la persona come una totalità unificata. Quando si incontrano due persone, il curante e il curato, nasce la vera presa in carico. Il paradosso della cura è che il paziente diventa strumento di realizzazione umana, non solo professionale, e di esperienza di grazia per il curante. Siamo fratelli tutti, perché figli di un unico Dio”.