La legge 41/2002 sull’autonomia del paziente è stata una pietra miliare nella storia della legislazione bioetica in Spagna. Tra gli altri obiettivi, serviva a riconoscere e proteggere i diritti dei pazienti.
Tuttavia, questa legge, insieme alla legislazione corrispondente, non copre un ambito che ricorre sempre più frequentemente nella nostra società: la relazione, nel contesto domestico, tra il malato cronico e il familiare che si prende cura di lui.
È sorprendente che un evento sociale quotidiano di tale portata non sia regolamentato da alcuna legge (a eccezione della legge sulla dipendenza, la cui applicazione concreta è ben lungi dall’essere efficace) né gestito da alcuna istituzione pubblica.
Viviamo in un mondo sanitario istituzionale altamente tecnologico e molto avanzato. Ma: la realtà del paziente a casa è la stessa che vive in ospedale? Avete le stesse risorse umane e materiali? Inoltre, il familiare che presta assistenza riceve sussidi pubblici per migliorare l’assistenza domiciliare del paziente?
È necessario richiamare l’attenzione su una realtà che, prima o poi, tutti incontreremo, se non ci siamo già trovati. E una situazione come questa diventa, quando si verifica, radicalmente nuova, per cui chi ne è colpito deve agire intuendo cosa fare e come, ma senza sapere realmente come farlo. Quindi, ostacoli interni ed esterni rendono difficile portare a termine i compiti da svolgere.
L’ignoranza su come procedere in ogni situazione, la necessità di ottenere risorse materiali che facilitino i compiti di cura, insieme alla formazione nell’attuazione di interventi appropriati in ogni caso o al supporto psicologico ed emotivo degli stessi operatori sanitari e del loro ambiente, giustificano l’urgenza di attuare processi di formazione per gli operatori sociosanitari, anche per tutti i soggetti interessati, da parte delle istituzioni pubbliche competenti.
In effetti, e per esperienza personale, bisogna imparare da zero, e non subito, perché dal momento in cui il paziente entra in una situazione di vulnerabilità che genera dipendenza, fino a quando il suo ambiente familiare assimila la nuova situazione e inizia ad adattarsi, passa del tempo suo.
Si tratta di uno spazio e di una situazione di fragilità che, pertanto, necessita di un aiuto multidisciplinare affinché l’accompagnamento della persona dipendente possa diventare un’esperienza edificante e non distruttiva, sia per la persona stessa che per chi se ne prende cura, dove si inseriscono i mezzi, gli interventi e gli atteggiamenti che dare un senso all’atto di prendersi cura e consentire alla persona a carico e al suo ambiente di sentirsi sostenuti e sollevati.
E questo perché le funzioni del caregiver primario includono l’alimentazione del familiare malato (anche in patologie in cui i trattamenti hanno come effetto collaterale la mancanza di fame o, addirittura, quando mangiare significa per il paziente stare molto male), igiene, mobilizzazione, somministrazione di farmaci prescritti o applicazione di altri trattamenti prescritti.
Si presenta quindi, spesso come una situazione nuova, un compito immane che richiede dedizione, tempo, impegno fisico e mentale, gestione delle tensioni emotive e, in ultima analisi, riformulazione degli stili di vita dell’ambiente familiare che devono progressivamente adattarsi alle esigenze e alle possibilità del dipendente e vulnerabili.
Da parte loro, le istituzioni pubbliche, a eccezione dell’Assistenza Domiciliare e delle Cure Primarie nei Centri Sanitari e, d’altro canto, dei Servizi Sociali territoriali, sono palesemente carenti nell’assistenza ai familiari assistenti, sia dal punto di vista materiale che umano. Di solito vengono forniti su base occasionale in processi cronici che richiedono attenzione continua e frequente.
Inoltre, il caregiver primario si trova spesso nell’impossibilità di proseguire la propria attività lavorativa a causa della necessità di prendersi cura del paziente di cui si prende cura, per cui dovrebbe essere previsto almeno un congedo per malattia per questo motivo, soggetto a corrispondenti e pertinenti accreditamenti per dimostrare la reale situazione che si sta vivendo.
Insistiamo sul fatto che non dobbiamo dimenticare che il problema del paziente affetto da malattia cronica, oltre ai problemi intrinseci ed evidenti della malattia stessa, è la cronicità.
E ciò che un paziente, in questo caso un paziente cronico, esige, tra le altre cose, è tempo; e non il tuo tempo, ma il loro tempo, il cui calcolo differisce notevolmente. Secondo la RAE, il verbo assistere deriva dal latino “assistere”, che significa “fermarsi accanto a”.
Con il progredire della malattia, ci saranno momenti di fragilità nel caregiver principale e nella sua famiglia, momenti in cui l’assistenza dovrà essere estesa anche a tutti loro. E questa nuova esigenza richiede anche una tabella di marcia: mezzi, procedure, personale formato, aiuto esperto… Ecco perché sono necessari assistenti secondari.
La relazione tra il malato cronico, il suo principale caregiver e il suo ambiente familiare è, quindi, una situazione di bisogno complessa che, purtroppo, manca ancora di una tutela e di un aiuto efficaci sia da parte dell’Amministrazione sia da parte di beni e servizi privati.
È urgente quindi creare una Rete di Cura che offra la possibilità di trasformare l’assistenza al malato in ambito familiare in un’occasione di crescita reciproca e di donazione che dia dignità alla vita anche nelle sue fasi più vulnerabili.
David Guillem-Tatay – Julio Tudela – Osservatorio di Bioetica – Istituto di Scienze della Vita