Riscattare il male con il male?

Riflessioni sulla sofferenza, sulla responsabilità e sulla ricerca di significato in mezzo alle avversità

OBV

Uno dei significati che il dizionario RAE attribuisce al verbo “riscattare” è quello di “porre fine a qualche inconveniente, dolore, difficoltà o altre avversità o fastidi”.

La sofferenza che accompagna l’esistenza e che può provocare dolore, umiliazione, disagio o altre avversità o disagio, spinge chi soffre a cercare di liberarsene in un modo o nell’altro. Questa esigenza di redenzione che lo libera dalle conseguenze del male subito, comporta la ricerca sia del rimedio che lo allevierà, sia delle cause che lo hanno provocato, nel legittimo tentativo di, correggendoli, di evitare che si ripetano.

Molti dei mali che affliggono l’esistenza hanno un rimedio: possiamo calmare il dolore, curare le malattie, ricostruire case, città, riparare ciò che non funziona… Altri no: non possiamo curare tutto, né alleviare tutto, né evitare la morte, né catastrofi naturali…

Ci si aspetta quindi che gli esseri umani intelligenti e liberi siano in grado di adattarsi a situazioni di vulnerabilità che li limitano e li fanno soffrire. E questo processo di adattamento deve comprendere anche tentativi di curare, correggere, prevenire, ricostruire o alleviare che gli permettano di sopravvivere nel miglior modo possibile.

Questa risposta al male, che cerca di mitigarne gli effetti e di aprire nuove speranze e possibilità anche nel mezzo della vulnerabilità, è quindi legittima e applicabile. È tipico della natura umana che ricerca incessantemente il bene.

Una seconda risorsa nel tentativo di riscattare il male subito è individuare le cause che originano il male che provoca la mia sofferenza, con l’intento di applicare misure correttive che ne impediscano il ripetersi.

Pertanto, indaghiamo sull’origine delle malattie per progettare rimedi, o su quella dei terremoti, dei vulcani, dei cicloni o del DANAS, per cercare di prevenirne gli effetti e, quando possibile, evitarli o alleviarli.

La scienza ha permesso agli esseri umani di fare grandi progressi nella conoscenza della natura e delle sue forze che causano situazioni in cui sono vulnerabili, impotenti, fragili ed esposti. Ma il sentimento di autosufficienza che questi progressi forniscono scompare quando il male inevitabilmente si impone, siamo devastati da pandemie, o inondazioni distruttive, catastrofi in cui diventa evidente la nostra natura limitata, creaturale, esposta e vulnerabile.

Non disponiamo di risorse sufficienti per identificare chiaramente le cause di questi disastri, in modo da poterli prevenire o neutralizzare.

Anche se dobbiamo alleviarne gli effetti sviluppando procedure di prevenzione, coordinamento, analisi e risposta che, nella misura delle possibilità reali, minimizzino gli effetti distruttivi del male inevitabile.

Ma è di fronte al male inevitabile che si manifesta dentro di noi una tentazione profonda: lungi dall’accettare il nostro limite, cerchiamo di individuare i colpevoli sui quali ricadrebbe la responsabilità dei mali subiti, nel tentativo tanto disperato quanto vano di fuggire. da loro.


Ed è vero che si possono mettere in atto errori, negligenze e comportamenti riprovevoli o inaccettabili, che contribuiscono ad amplificare le conseguenze dei mali subiti. Vanno individuati per promuovere azioni correttive di ogni tipo che cerchino di ridurre al minimo la possibilità che tali atteggiamenti si ripetano.

Il problema sorge quando, nel legittimo tentativo di riscattarsi dal male che lo affligge, l’essere umano rinuncia ad accettare la sua condizione di creatura vulnerabile e presuppone che la causa di questo male risieda nella colpa di qualcuno che, per negligenza, incompetenza o la malafede è all’origine delle sue sofferenze.

In molte occasioni esiste un tale senso di colpa, che deve essere giustamente identificato ed espiato. In altri, la negligenza o l’incompetenza di alcuni è parte del problema, ma non la causa ultima che ci permette di pensare che eliminando la persona negligente o facendola pagare, sradichiamo ogni possibilità che il male possa ripetersi.

E in altri non è possibile attribuire la responsabilità del danno subito ai presunti colpevoli. Perché non l’hanno causato né amplificato. Non poteva essere evitato.

Non è facile discernere in tutti i casi la portata della responsabilità umana per i mali che soffriamo.

Va condannato l’atteggiamento negligente che non cerca di identificare comportamenti riprovevoli. Così come vanno condannate anche le vendette, le colpe indiscriminate, le dita accusatorie, gli insulti, le diffamazioni o le calunnie ciecamente riversate nel tentativo di additare il colpevole, affinché, togliendolo di mezzo e facendoglielo pagare, si impedisca il male che mette alla prova la nostra vulnerabilità e continua a farci soffrire.

Esigere responsabilità da coloro che potrebbero essere all’origine di situazioni che ci danneggiano è applicare la giustizia per preservare il bene. Ma pensare che dietro ogni male che ci ferisce ci sia un colpevole su cui scaricare il peso della sua totale redenzione è un grave errore.

Perché siamo vulnerabili e soffriamo. E non siamo in grado di evitare ogni sofferenza. Trovarne il significato, che spinge alla solidarietà, alla compassione e alla dedizione verso gli altri, ci permette di rialzarci dopo le cadute, iniziare la ricostruzione, recuperare la speranza e diventare persone migliori; forse più poveri, più vulnerabili, ma più sensibili alla sofferenza degli altri, più dediti alla ricerca del bene, della verità, più liberi. Il male si redensce con il bene.

Julio Tudela – Osservatorio di Bioetica – Istituto di Scienze della Vita – Università Cattolica di Valencia

Articolo pubblicato su Valencia Plaza.