Il Giubileo del 2025, Anno Santo che ho voluto dedicare al tema “Pellegrini della speranza”, è un’occasione propizia per riflettere su questa fondamentale e decisiva virtù cristiana. Soprattutto in tempi come quelli che stiamo vivendo, in cui la terza guerra mondiale a pezzi che si sta svolgendo davanti ai nostri occhi può indurci ad assumere atteggiamenti di cupo scoraggiamento e di cinismo mal dissimulato.
La speranza, invece, è un dono e un compito per ogni cristiano. È un dono perché è Dio che ce lo offre. L’attesa, infatti, non è un mero atto di ottimismo, come quando talvolta si spera di superare un esame all’università (“Speriamo di riuscirci”) o si aspetta il bel tempo per partire in gita in una domenica primaverile (” Speriamo che il tempo sia bello”). No, l’attesa è aspettare qualcosa che ci è già stato donato: la salvezza nell’amore eterno e infinito di Dio. Quell’amore, quella salvezza che dà sapore alla nostra vita e che costituisce il cardine su cui regge il mondo, nonostante tutti i mali e le nefanie causate dai nostri peccati di uomini e donne. Aspettare, allora, è accogliere questo dono che Dio ci offre ogni giorno. Aspettare è assaporare la meraviglia di essere amati, cercati, desiderati da un Dio che non si è rinchiuso nei suoi cieli impenetrabili, ma che si è fatto carne e sangue, storia e giorni, per condividere il nostro destino.
Anche la speranza è un compito che i cristiani hanno il dovere di coltivare e valorizzare per il bene di tutti i fratelli. Il compito è rimanere fedeli al dono ricevuto, come ha giustamente osservato Madeleine Delbrêl, donna francese del XX secolo, capace di portare il Vangelo nelle periferie, sia geografiche che esistenziali, della Parigi di metà secolo, segnata dalla scristianizzazione. Ha scritto Madeleine Delbrêl: «La speranza cristiana ci assegna come luogo quella stretta linea di cresta, quella frontiera dove la nostra vocazione esige che scegliamo, ogni giorno e ogni ora, di essere fedeli alla fedeltà di Dio verso di noi». Dio è fedele a noi, il nostro compito è rispondere a quella fedeltà. Ma attenzione: non siamo noi a generare questa fedeltà, è un dono di Dio che agisce in noi se ci lasciamo modellare dalla sua forza d’amore, dallo Spirito Santo che agisce come soffio ispiratore nei nostri cuori. Tocca a noi, allora, invocare questo dono: “Signore, concedimi di esserti fedele nella speranza!”
Ho detto che l’attesa è un dono di Dio e un compito dei cristiani. E vivere la speranza richiede un «misticismo a occhi aperti», come lo chiamava il grande teologo Joseph-Baptist Metz: saper discernere, ovunque, le prove della speranza, l’irruzione del possibile nell’impossibile, la grazia là dove si trova sembrerebbe che il peccato abbia eroso ogni fiducia. Qualche tempo fa ho avuto l’opportunità di parlare con due eccezionali testimoni di speranza, due padri: uno israeliano, Rami, e l’altro palestinese, Bassam. Entrambi hanno perso le figlie nel conflitto che da troppi decenni insanguina la Terra Santa. Ma, tuttavia, in nome del loro dolore, della sofferenza provata per la morte delle loro due piccole figlie – Smadar e Abir – sono diventati amici, anzi, fratelli: vivono il perdono e la riconciliazione come un gesto concreto, profetico e autentico. Incontrarli mi ha dato così tanta speranza. La loro amicizia e fratellanza mi hanno insegnato che l’odio, nello specifico, potrebbe non avere l’ultima parola. La riconciliazione che sperimentate come singoli, profezia di una riconciliazione più grande e più ampia, è un segno invincibile di speranza. E la speranza ci apre a orizzonti impensabili.
Invito ciascun lettore di questo testo a compiere un gesto semplice ma concreto: la sera, prima di coricarsi, ripercorrendo le vicende vissute e gli incontri avuti, andare alla ricerca di un segno di speranza nella giornata che sta finendo determinare. Un sorriso di qualcuno da cui non se lo aspettavano, un atto di gratuità osservato a scuola, una gentilezza trovata sul posto di lavoro, un gesto di aiuto, anche piccolo: la speranza è, infatti, una “virtù infantile”, come scriveva Charles Péguy . E dobbiamo ridiventare bambini, con i loro occhi curiosi sul mondo, per trovarlo, conoscerlo e apprezzarlo. Alleniamoci a riconoscere la speranza. Allora potremo meravigliarci di tutto il bene che esiste nel mondo. E i nostri cuori si illumineranno di speranza. Allora potremo essere fari del futuro per chi ci circonda.
Città del Vaticano, 2 ottobre 2024